Morire in attesa: perché la sanità “universale” italiana seleziona chi si salva

Morire in attesa: perché la sanità “universale” italiana seleziona chi si salva

Un uomo di 84 anni entra al Pronto soccorso dell’ospedale “Santa Scolastica” di Cassino in una mattina qualunque di fine ottobre. Accusa dolori toracici violenti, perde i sensi, la moglie chiama l’ambulanza e in pochi minuti viene trasportato in ospedale. Al triage gli viene assegnato un codice giallo, che in teoria significa urgenza differibile, ma in pratica diventa un’attesa indefinita su una barella, tra altri pazienti, in una corsia già troppo piena. Passano ore. Il figlio, preoccupato, chiede più volte che il padre venga visitato. Solo dopo insistenze e un peggioramento evidente delle condizioni, il codice diventa rosso. Poco dopo, l’uomo muore.

Il figlio denuncia, chiede l’autopsia, il sequestro delle cartelle cliniche, la magistratura apre un’indagine, ma chiunque abbia seguito anche distrattamente la cronaca sanitaria italiana sa che non è la prima volta, e purtroppo non sarà l’ultima. Cassino è solo un punto su una mappa sempre più fitta di storie simili, che si ripetono da Nord a Sud, con varianti minime ma con lo stesso finale: la morte che arriva non per incurabilità, ma per lentezza, per assenza, per indifferenza organizzativa.

Il problema è che nel 2025 tutto questo non dovrebbe più accadere. Non in un Paese che si vanta di avere uno dei sistemi sanitari pubblici più avanzati al mondo. Non in un Paese che, almeno sulla carta, considera la salute un diritto universale e inviolabile. Eppure, quella carta oggi è logora, e l’universalismo della sanità italiana è diventato una promessa tradita, un racconto di cui continuiamo a ripetere le parole senza più crederci davvero.

L’universalismo solo sulla carta

Siamo cresciuti con l’idea che la sanità pubblica italiana fosse un’eccellenza, un modello di equità e accessibilità. E in parte lo è stata, per anni. Ma quel modello oggi si sta sgretolando, l’universalismo sopravvive nei documenti ministeriali, nei discorsi ufficiali, nei convegni, ma non più nella realtà delle corsie. La differenza tra la teoria e la pratica si misura nei tempi d’attesa, nella carenza di personale, nei pronto soccorso sovraccarichi, nelle liste di prenotazione che scorrono come sabbia in una clessidra senza fine.

Chiunque abbia avuto a che fare con il sistema sanitario pubblico negli ultimi anni conosce la scena: ore di attesa in corridoi affollati, medici che corrono da un paziente all’altro con sguardo stanco, infermieri costretti a fare miracoli con risorse ridotte al minimo. Non è disorganizzazione, è sopravvivenza. Nessuno nega l’impegno di chi lavora in sanità, ma è un impegno che si scontra con un muro di carenze strutturali, di tagli, di sottovalutazioni.

L’uguaglianza di accesso alle cure è ormai un’illusione chi può permettersi il lusso del tempo e della pazienza aspetta, chi non può paga e va nel privato, e chi non ha né tempo né soldi rinuncia. La sanità pubblica italiana resta universale solo nel nome, perché nella sostanza è diventata selettiva.

Il definanziamento come strategia silenziosa

Il collasso del sistema sanitario non è un effetto improvviso, ma il risultato di un lungo processo di impoverimento. Da anni si taglia, si rimanda, si sposta in avanti il problema come se fosse un fastidio momentaneo e non una crisi strutturale. Ogni governo ha promesso “più fondi” e “riforme epocali”, ma nella realtà il peso economico della sanità pubblica sul PIL è andato progressivamente diminuendo, mentre cresceva il costo sostenuto direttamente dai cittadini.

È una forma di smantellamento dolce, quasi impercettibile, fatta di numeri che sembrano piccoli ma che nel tempo diventano voragini. Meno soldi significano meno assunzioni, meno posti letto, meno apparecchiature, meno manutenzione. Il risultato è che gli ospedali si svuotano di risorse e si riempiono di disuguaglianze.

Il definanziamento non è una fatalità: è una scelta politica. È la decisione, reiterata e condivisa da governi di ogni colore, di considerare la sanità un costo e non un investimento. E quando la salute diventa un numero di bilancio, i cittadini smettono di essere persone e diventano voci di spesa.

Le liste d’attesa: la sanità che non c’è

Le liste d’attesa sono diventate il simbolo più chiaro di questa deriva. Tre mesi per una visita cardiologica, sei per una risonanza, un anno per un controllo oncologico. E non si tratta di eccezioni, ma della regola. Ogni volta che un cittadino prova a prenotare una visita specialistica, entra in un labirinto di date, cancellazioni, rinvii.

Il governo prova periodicamente a correre ai ripari con nuovi decreti, nuove piattaforme digitali, nuove “cabine di regia”. Ma i problemi non si risolvono con un software. Si risolvono con personale, con risorse, con un’organizzazione che funzioni. Un sistema informatico può monitorare le liste, non può ridurle.

Chi può permetterselo, a un certo punto smette di aspettare. Va nel privato, paga e si cura. Chi non può, rimane in coda. È la sanità del doppio binario: efficiente per chi paga, lentissima per chi non può. E mentre il Paese discute di algoritmi e digitalizzazione, la realtà è che un cittadino su dieci rinuncia del tutto a curarsi.

L’Italia che rinuncia a curarsi

È il dato più drammatico e al tempo stesso più ignorato: milioni di italiani non si curano perché non possono, e non si parla di una fascia marginale della popolazione, ma di una fetta sempre più ampia di cittadini “normali”, di lavoratori, pensionati, famiglie che si arrangiano come possono.
Il diritto alla salute, sancito dalla Costituzione, non dovrebbe dipendere dal reddito e invece in Italia, nel 2025, dipende esattamente da quello.

La situazione è paradossale: abbiamo un sistema sanitario pubblico che teoricamente garantisce cure gratuite o quasi, ma che nei fatti costringe le persone a pagare per avere tempi umani.

E chi non può, rinuncia.

Dietro ogni rinuncia c’è una storia di paura, di attesa, di dolore. C’è chi rinvia una visita oncologica, chi sospende una fisioterapia, chi si affida all’automedicazione.
Ogni rinuncia è un piccolo fallimento collettivo, la prova che la sanità pubblica non è più il luogo della cura ma il luogo della resistenza.

Il pronto soccorso come imbuto

Il Pronto soccorso è il termometro di un sistema sanitario, se il PS esplode, vuol dire che tutto il resto non funziona. E oggi i pronto soccorso italiani sono diventati l’imbuto di tutte le inefficienze.
Ci finisce chi ha un infarto, chi ha la febbre, chi non trova un medico di base, chi è solo. È il luogo dove la sanità pubblica scarica tutte le sue mancanze: il territorio che non esiste, la medicina di base che non riesce più a rispondere, i reparti senza posti letto.

I medici e gli infermieri dei PS vivono una condizione impossibile. Sono pochi, malpagati, stanchi, continuamente sotto pressione. Eppure reggono un sistema che, senza di loro, crollerebbe in pochi giorni.
Quando un anziano muore in barella, non è colpa di chi era in turno è colpa di un Paese che ha smesso di garantire le condizioni minime per curare.

Ogni volta che si parla di “emergenza sanitaria”, bisognerebbe avere il coraggio di dire che non si tratta di un’emergenza, ma di un collasso permanente. La sanità italiana non ha bisogno di eroi, ma di strutture che funzionino, di reparti che non debbano scegliere chi curare prima, di personale che non debba chiedersi se ce la farà a finire il turno.

Dopo la pandemia, quando il mondo intero aveva capito quanto fosse fragile la nostra salute collettiva, ci eravamo giurati di non ripetere gli stessi errori. Ricordiamo bene i discorsi solenni: la “sanità di prossimità”, le “Case di Comunità”, gli “infermieri di famiglia”. Dovevano essere le colonne portanti di una nuova sanità italiana, più vicina ai cittadini, capace di prevenire invece di correre sempre dietro alle emergenze. Dovevano essere la rivoluzione culturale e strutturale del post-Covid, la risposta concreta a un sistema che aveva mostrato tutti i suoi limiti.

E invece, cinque anni dopo, tutto è rimasto sulla carta. Le Case di Comunità promesse si contano sulle dita, e molte di quelle inaugurate sono semplici ristrutturazioni di vecchi poliambulatori, spacciate per “innovazione”. Gli infermieri di famiglia esistono solo in alcune regioni, e spesso con numeri irrisori. I fondi stanziati non bastano, la programmazione è disomogenea, e la sanità territoriale continua a essere il grande assente, il fantasma che tutti evocano e che nessuno realizza.

Nel frattempo, i pronto soccorso restano l’unico punto di riferimento reale per milioni di italiani. Quando qualcosa non va, si va lì. Sempre lì. Anche per un mal di schiena, un’influenza, un disagio sociale. Il PS è diventato la porta d’ingresso universale, non solo per le urgenze ma per tutto ciò che il territorio non riesce a gestire. E così si crea un paradosso: i pronto soccorso, nati per le emergenze, vengono travolti da una mole di richieste che non dovrebbero nemmeno arrivarci, mentre chi ha davvero bisogno resta in attesa.

Il territorio doveva alleggerire gli ospedali, doveva essere il primo filtro, il luogo dell’ascolto, della prevenzione, del monitoraggio dei cronici, della medicina di base integrata con quella specialistica. Invece li ha ingolfati ancora di più, perché non ha mai funzionato come sistema parallelo. Le regioni si sono mosse in ordine sparso, ognuna con il proprio piano, senza una regia nazionale coerente. Così, mentre nei documenti si parla di “rete di prossimità”, nella realtà i medici di base sono lasciati soli, gli infermieri si dividono tra mille mansioni e gli ospedali diventano il punto di convergenza di tutto ciò che non trova risposta altrove.

Una sanità che non ha territorio è una sanità cieca, che reagisce ma non previene, che rincorre ma non anticipa. È un organismo che vive costantemente in modalità emergenza, un sistema che spende moltissimo per curare troppo tardi, e quasi nulla per evitare che le persone si ammalino. E non si può parlare di modernità quando l’unico presidio reale resta il pronto soccorso. Non è progresso, è sopravvivenza mascherata da efficienza.

La doppia velocità della salute

In Italia oggi coesistono due sanità: quella pubblica, esausta e sfiancata, e quella privata, lucida, veloce, in crescita costante. La prima arranca, tra mancanza di personale, tagli e attese interminabili; la seconda cresce, attrae professionisti dal pubblico, conquista pazienti che non vogliono o non possono aspettare. È la fotografia di un Paese spaccato, in cui la salute è diventata una questione di reddito.

Chi può permetterselo sceglie la via privata: prenota una visita in pochi giorni, paga, ottiene risposte rapide e precise. Chi non può, rimane nel percorso pubblico, intrappolato in un circuito di tempi dilatati e procedure lente. Ma il vero problema non è solo economico: è culturale. Stiamo normalizzando questa disuguaglianza, la stiamo accettando come se fosse inevitabile. “Chi ha più soldi si cura meglio”, dicono in molti, come se fosse una legge naturale, un riflesso del mercato. Ma la salute non è un bene di lusso: è un diritto fondamentale.

La sanità pubblica era nata proprio per evitare questa selezione naturale, per garantire a chiunque – ricco o povero – la stessa possibilità di essere curato con dignità. Oggi, invece, è diventata il luogo in cui si misurano le distanze sociali. Nelle cliniche private i corridoi profumano di disinfettante e ordine, negli ospedali pubblici l’odore è quello di disinfettante e stanchezza. E la cosa più inquietante è che tutto questo non provoca più scandalo. È diventato normale, come se fosse scritto nel DNA del nostro Paese.

Questa doppia velocità non è solo un problema di equità, è un problema di democrazia. Un sistema sanitario che discrimina in base al reddito è un sistema che tradisce la sua funzione originaria. E quando la sanità diventa selettiva, anche la società lo diventa: perché un cittadino che non può curarsi non è più un cittadino libero, ma un sopravvissuto in attesa di un turno che non arriva mai.

I soldi ci sono, ma si spendono altrove

Ogni volta che si parla di aumentare i fondi per la sanità, la risposta è sempre la stessa: “I soldi non ci sono”. Una frase che ormai suona come un mantra, ripetuta con tale convinzione da sembrare un dogma. Eppure non è vero. I soldi ci sono, ma si preferisce investirli altrove.

Si trovano miliardi per il riarmo, per grandi opere che non vedono mai la fine, per bonus una tantum che servono solo a tenere buoni gli elettori per qualche mese. Ma quando si parla di assumere medici, di ristrutturare ospedali, di finanziare la medicina territoriale, improvvisamente il bilancio diventa un ostacolo insormontabile. È come se la sanità fosse diventata una voce fastidiosa, un argomento scomodo, qualcosa che “non porta voti”.

Eppure, la sanità è il cuore stesso di una nazione. È la sua infrastruttura più importante, la garanzia che tiene insieme il patto tra lo Stato e i cittadini. Se lo Stato non è più in grado di proteggere la salute dei suoi cittadini, ha già fallito in tutto il resto.

Non investire nella sanità non significa risparmiare: significa spendere peggio. Ogni taglio di oggi si trasforma in un costo più alto domani, in termini di vite, di sofferenza, di perdita di fiducia. È una tassa invisibile, che grava soprattutto su chi ha meno mezzi. Perché chi ha risorse può comprarsi la salute, chi non le ha si arrangia, si ammala, muore prima.

Un Paese che destina fondi alla guerra e non alla cura è un Paese che ha smarrito il senso delle proprie priorità. La vera modernità non è costruire armi più intelligenti, ma ospedali che funzionano. Non è il riarmo tecnologico, è la protezione sociale.

Dignità: la misura di una società

Alla fine, tutto si riduce a una parola che abbiamo smesso di pronunciare: dignità.

La dignità del paziente che non dovrebbe morire su una barella, abbandonato in un corridoio senza assistenza.
La dignità del medico che non dovrebbe lavorare quindici ore di fila, costretto a scegliere chi vedere e chi rimandare.
La dignità dell’infermiere che non dovrebbe piangere in bagno dopo un turno notturno, sopraffatto dalla stanchezza e dal senso di impotenza.

La sanità non è solo un servizio pubblico: è la rappresentazione materiale del patto di civiltà che unisce i cittadini a uno Stato. Se lo Stato ti lascia morire in attesa, quel patto è rotto. Non basta dire “faremo chiarezza”, non bastano le inchieste. Serve una presa di coscienza collettiva.

Morire in attesa non è una fatalità. È il risultato di scelte precise, di bilanci calibrati male, di politiche che hanno dimenticato il volto umano della salute. Un Paese che non garantisce dignità a chi soffre non è solo inefficiente: è moralmente malato.

E forse è questo il vero dramma italiano: non tanto la mancanza di mezzi, ma la perdita di sensibilità, la capacità di indignarsi solo per un giorno e poi tornare alla normalità, come se niente fosse.

Cassino come simbolo e monito

La morte dell’uomo a Cassino non è un incidente, non è un caso isolato. È il simbolo di un sistema che ha perso la sua anima, di una sanità che non riesce più a proteggere chi ne ha più bisogno.
Possiamo continuare a fingere che sia colpa di un singolo errore, di un reparto sotto stress, di una catena di sfortunate coincidenze. Ma la verità è che questa storia è solo l’ennesimo capitolo di un romanzo già scritto, quello di un Paese che da anni guarda altrove mentre la sua sanità muore lentamente.

Dietro ogni morte in attesa ci sono decenni di tagli, di promesse non mantenute, di slogan senza sostanza, di disillusione civile. Ci sono politici che si vantano dei successi della sanità italiana senza metterci un euro in più, e cittadini che, rassegnati, ripetono “è sempre stato così”.

Ma non è normale morire in attesa. Non è accettabile nel 2025, in uno Stato che si definisce civile.
E se lo accettiamo, se lo giustifichiamo, se ci limitiamo a dire “succede”, allora siamo tutti complici di un crimine silenzioso.

La vera domanda, quella che dovrebbe perseguitarci tutti, non è perché un uomo di 84 anni sia morto su una barella, ma perché un intero Paese lo consideri normale.
E la risposta, qualunque essa sia, racconta meglio di qualunque statistica il grado di civiltà che ci resta.

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