New York ha un nuovo sindaco, ma non è solo un cambio di amministrazione: è un terremoto politico. Zohran Mamdani, 34 anni, musulmano, socialista, cresciuto tra l’Uganda e il Queens, ha riscritto le regole del gioco nella città più simbolica del capitalismo mondiale.
La sua vittoria non è soltanto un evento elettorale, ma un segnale preciso — e potenzialmente esplosivo — della direzione che una parte dell’America sta prendendo. Una direzione che non piace a Wall Street, che fa infuriare i miliardari, e che manda in tilt lo stesso Partito Democratico.
L’ascesa di un outsider
Fino a pochi mesi fa, il nome di Zohran Mamdani diceva poco o nulla ai newyorchesi. Rappresentava un quartiere, Astoria, all’assemblea statale di New York, e apparteneva ai Democratic Socialists of America, la stessa galassia di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez.
La sua candidatura a sindaco era partita come una provocazione politica: un giovane socialista contro l’establishment democratico e contro i colossi finanziari che hanno trasformato Manhattan in un luna park per ricchi. Poi, però, qualcosa è cambiato.
Quando Mamdani ha iniziato a parlare di affitti congelati, bus gratuiti e asili nido per tutti, la città lo ha ascoltato. Non come si ascolta un idealista, ma come si ascolta qualcuno che finalmente parla dei problemi reali. Il costo della vita a New York è ormai insostenibile perfino per la classe media. Il sogno americano, nella città simbolo del sogno americano, è diventato un incubo fatto di debiti, affitti stellari e stipendi stagnanti.
In questo vuoto di credibilità, Mamdani ha infilato la sua narrativa: semplice, diretta, perfettamente calibrata per una generazione che si informa su TikTok e non crede più ai discorsi da comizio.
Il candidato TikTok e la nuova lingua della politica
Non è un dettaglio secondario. Mamdani ha capito che, nel 2025, la politica non si fa più nelle piazze ma negli algoritmi. Ha usato i social non per costruirsi un’immagine, ma per smontare quella dei suoi avversari. Sempre sorridente, diretto, con una comunicazione spontanea, ha portato nelle case un messaggio di giustizia sociale senza mai sembrare un predicatore.
Gli americani lo hanno soprannominato “il candidato TikTok”. Dietro i video brevi e i toni leggeri, però, c’è un progetto serio: redistribuire la ricchezza in una delle città più diseguali del mondo.
E non ha paura di dirlo: vuole tassare i ricchi. Non è una formula vaga, ma un piano preciso: aumentare l’imposta sui profitti aziendali fino all’11,5% e aggiungere una tassa del 2% per chi guadagna oltre un milione di dollari l’anno. A New York, dove i milionari sono oltre 340mila, è una rivoluzione fiscale.
I ricchi contro Zohran
Era inevitabile che l’establishment reagisse. E infatti ha reagito con la brutalità di chi si sente minacciato nei nervi scoperti. I miliardari di New York hanno versato miliardi nelle campagne dei candidati avversari: Michael Bloomberg, Alice Walton, Reed Hastings, Joe Gebbia. Persino Bill Ackman, finanziere e megafono della destra economica, ha scatenato una crociata personale contro di lui.
Le accuse si sono moltiplicate: socialista, pericoloso, amico dei terroristi. Qualcuno lo ha persino definito “una minaccia alla sicurezza nazionale”.
La sua fede musulmana è stata trasformata in un’arma retorica. In un Paese dove il trauma dell’11 settembre è ancora vivo, basta poco per evocare paure ataviche. Un avversario repubblicano, Curtis Sliwa, è arrivato ad accusarlo di “promuovere la jihad globale”. Una menzogna, ovviamente, ma sufficiente per scatenare l’odio dei talk show conservatori.
Un voto di protesta, non di fede
Eppure, i dati raccontano una storia diversa. A New York, i cristiani rappresentano circa il 60% della popolazione, gli ebrei il 7%, i musulmani appena il 2%. È evidente che Mamdani non è stato eletto dai musulmani, né da una minoranza etnica organizzata.
È stato eletto dalla rabbia dei giovani.
Per la prima volta, la fascia tra i 20 e i 30 anni ha inciso in modo determinante sul voto. Un voto di protesta, certo, ma anche di consapevolezza. I giovani americani sono stanchi di un sistema che produce guerre, disuguaglianze e ipocrisie globali in nome della libertà.
Stanchi di un capitalismo che non garantisce più nemmeno la sopravvivenza, e di un ordine mondiale che impone sanzioni, guerre e stermini con la stessa leggerezza con cui si cambia un algoritmo.
La generazione che ha portato Mamdani a vincere non è la generazione dei sogni infranti, ma quella del “non ci fregate più”. È la generazione che ha visto l’università trasformarsi in debito, la casa diventare un lusso, la sanità un privilegio, e che ora pretende risposte.
La rottura con il Partito Democratico
Il paradosso è che Mamdani ha vinto correndo con il Partito Democratico, ma il suo successo è la cosa più pericolosa che potesse accadere ai Democratici stessi.
Lui non è “uno di loro”. È iscritto ai Democratic Socialists of America, il movimento che la vecchia guardia democratica ha sempre guardato con sospetto, e che ora rappresenta l’unico polo capace di entusiasmare i giovani.
Kamala Harris lo ha appoggiato solo a pochi giorni dal voto, quando la vittoria era ormai inevitabile. Barack Obama non si è espresso pubblicamente, ma ha fatto sapere di stimarlo.
Eppure, all’interno del partito, il suo nome è un enigma. Da una parte è la prova che la sinistra radicale può vincere, dall’altra è la conferma che il sistema democratico tradizionale è in crisi irreversibile.
La paura del potere: Trump, Musk e i miliardari
Donald Trump lo ha già minacciato apertamente: “Se Mamdani vince, taglieremo i fondi federali a New York e invieremo la Guardia Nazionale”. Una frase che sembra uscita da un film distopico, ma che racconta bene la nuova America, divisa tra un presidente autoritario e una sinistra che cerca di reinventarsi.
Elon Musk, dal canto suo, ha definito Mamdani “un pericolo per l’economia americana”. È un classico: ogni volta che qualcuno tocca i privilegi dei miliardari, il capitalismo veste i panni della vittima.
Ma il dato politico più interessante è che la fuga dei ricchi non c’è stata. Nessun esodo fiscale, nessuna bancarotta collettiva. I soldi, per ora, restano a New York. Il capitalismo, quando conviene, sa adattarsi persino ai socialisti.
Il laboratorio New York
La città è sempre stata un laboratorio politico, culturale e sociale. È la vetrina del mondo, e ciò che accade lì tende a riflettersi altrove. La vittoria di Mamdani non è solo la storia di un giovane sindaco musulmano, ma il primo esperimento riuscito di un nuovo modello di leadership urbana: inclusiva, redistributiva e digitale.
Ma la sfida vera comincia ora. Congelare gli affitti, costruire alloggi popolari, istituire un dipartimento di salute mentale nella polizia: tutte promesse che richiederanno scontri duri, soprattutto con lo Stato di New York, dove il governatore appartiene all’ala moderata dei Democratici.
Eppure, se anche solo una parte di quel programma dovesse concretizzarsi, New York diventerebbe un precedente storico. Sarebbe la prova che un modello alternativo al neoliberismo può funzionare persino nel cuore del capitalismo.
Il voto generazionale e la crisi del “nuovo ordine mondiale”
Dietro il voto per Mamdani si nasconde qualcosa di più profondo: la sfiducia nei confronti del potere globale. Non è un mistero che l’ultimo anno, tra guerre, crisi energetiche e strategie geopolitiche spregiudicate, abbia lasciato un solco nell’opinione pubblica.
I giovani non si riconoscono più nei governi che predicano la pace mentre bombardano, che parlano di libertà mentre censurano, che si indignano per i diritti civili ma chiudono gli occhi sui genocidi.
Mamdani ha saputo intercettare questa disillusione e trasformarla in proposta politica.
La sua critica alla guerra a Gaza, il suo linguaggio diretto contro Netanyahu e contro l’appoggio cieco dell’amministrazione Biden a Israele, hanno scosso un tabù della politica americana. Nessun sindaco, in passato, aveva mai usato parole così nette sul Medio Oriente.
Il fenomeno Mamdani: un nuovo linguaggio per la sinistra
Ciò che rende Mamdani pericoloso per l’establishment non è tanto la sua ideologia, ma il suo modo di comunicarla. È un socialista che non parla come un socialista. Non cita Marx, non evoca rivoluzioni, non promette paradisi collettivi.
Parla di affitti, bus, e bambini. Tre parole, tre bisogni primari.
E lo fa con un linguaggio gentile ma inflessibile. È sorridente, ma non cede. È idealista, ma concreto. È giovane, ma parla come un adulto che ha capito quanto il sistema sia marcio.
Questo equilibrio tra empatia e fermezza lo rende difficilmente attaccabile, e per questo pericoloso per la politica tradizionale.
La reazione dell’America profonda
Naturalmente, l’America bianca, rurale e repubblicana ha reagito con un misto di sdegno e panico. Nei talk show conservatori, Mamdani è stato descritto come il “cavallo di Troia dell’islam” o “il sindaco woke che farà crollare Wall Street”.
Ma New York non è l’America profonda. È una metropoli cosmopolita, ribelle e contraddittoria. E in un’epoca di estremismi, il volto sorridente di un giovane musulmano socialista che parla di giustizia sociale sembra, paradossalmente, la cosa più americana che ci sia.
Il simbolo di un’epoca
Che piaccia o no, Zohran Mamdani è il simbolo di un cambio d’epoca. È il primo politico americano della nuova generazione a parlare apertamente di redistribuzione della ricchezza, senza vergognarsene.
È anche il primo a mettere in discussione la sudditanza culturale e militare degli Stati Uniti verso Israele, pagando il prezzo mediatico di un linciaggio quotidiano.
Eppure, dietro la sua figura, c’è una città che ha scelto di ribellarsi, non per ideologia, ma per sopravvivenza.
Una nuova New York (forse)
Resta da vedere se riuscirà davvero a trasformare le promesse in realtà. Governare New York è un mestiere ingrato, fatto di compromessi, pressioni e minacce.
Ma anche se Mamdani dovesse fallire, la sua vittoria resta storica. Ha aperto una crepa nel muro della politica americana, e da quella crepa entrerà aria nuova.
Perché in fondo, in una città dove l’1% controlla quasi tutto, anche solo parlare di giustizia sociale è già un atto rivoluzionario.
L’Italia che commenta (e non capisce)
Come prevedibile, anche in Italia la notizia dell’elezione di Zohran Mamdani ha scatenato il solito circo mediatico. Destra e sinistra si sono affrettate a leggere l’evento americano come se fosse uno specchio dei propri desideri o delle proprie paure.
Il generale Vannacci, sempre pronto con la penna e l’elmetto, ha sentenziato che “l’Occidente celebra la propria resa culturale”. Simone Pillon, dal canto suo, ha denunciato “la penetrazione inarrestabile dell’Islam nell’Occidente cristiano”, come se a New York fosse appena entrato in moschea il sindaco del Cairo.
Claudio Borghi, con la consueta ironia lombarda, ha commentato: “Lì è come la zona 1 di Milano. Voterebbero anche l’Ayatollah Khamenei pur di sentirsi buoni”.
A sinistra, invece, l’entusiasmo è esploso come un fuoco d’artificio fuori stagione. Fratoianni ha detto che “ha vinto con il nostro programma”, mentre Acerbo e Camposampiero hanno salutato la vittoria come “l’inizio dell’ascesa di una vera sinistra in America, quella di Sanders e Ocasio-Cortez”.
Ivan Scalfarotto, più sobrio, ha ricordato che “i Democratici americani non hanno ancora elaborato una strategia chiara per costruire un’opposizione vera a Trump”.
Insomma, ognuno ha trovato nel caso Mamdani ciò che voleva vedere: chi la minaccia islamica, chi la rinascita socialista, chi semplicemente un’occasione per riempire le pagine dei giornali.
Ma la verità, come spesso accade, è più semplice e meno ideologica.
Il sentimento popolare, sia in America che in Italia, è diviso non tanto dalla politica quanto dal tempo. È una frattura generazionale. I giovani, anche quelli italiani, guardano a Mamdani con simpatia: lo vedono come uno dei loro, un politico che parla chiaro, che sorride e non sembra costruito in laboratorio. Chi ha qualche anno in più, invece, lo percepisce come “diverso” — e si sa, agli italiani il cambiamento piace solo quando non cambia nulla.
Forse sarebbe ora che la sinistra nostrana, invece di esultare per le vittorie altrui, cominciasse a chiedersi perché da noi un personaggio come Mamdani non potrebbe neppure candidarsi senza essere stritolato dai veti di partito o dai talk show.
Perché mentre a New York un giovane musulmano socialista conquista il cuore di una metropoli, in Italia la sinistra continua a sognare il riscatto altrui e a produrre solo slogan, hashtag e mozioni.
La verità è che Mamdani non rappresenta la vittoria della sinistra: rappresenta la sconfitta di chi, in tutto l’Occidente, ha smesso di parlare alle persone.
E finché la sinistra italiana non capirà questo — che la politica non è identità ma empatia, non ideologia ma realtà — continuerà a esultare per sindaci stranieri mentre perde le proprie città, una dopo l’altra.




