Due fatti di cronaca nera, avvenuti a pochi giorni di distanza, hanno mostrato ancora una volta come la violenza non abbia genere, ma come il racconto che se ne fa finisca troppo spesso intrappolato in una logica ideologica e faziosa. Da una parte un uomo massacrato in casa dalla madre e dalla compagna, dall’altra una donna e la sua famiglia sterminate dall’ex marito armato. Due tragedie diverse, ma unite da un comune denominatore: l’incapacità di guardare ai fatti senza piegarli a una guerra dei sessi che avvelena il dibattito pubblico.
I due fatti di cronaca
Il primo episodio arriva da Gemona del Friuli, provincia di Udine. Il 25 luglio 2025 Alessandro Venier, 35 anni, viene ucciso in casa. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, a togliergli la vita sono la madre, l’infermiera 61enne Lorena Venier, e la compagna, la trentenne Mailyn Castro Monsalvo. Nel corso dell’interrogatorio la madre confessa: il figlio sarebbe stato prima stordito con farmaci, poi soffocato con un cordino; il corpo, quindi, sezionato e ricoperto di calce viva in garage. La Procura contesta la premeditazione, mentre emerge il contesto familiare teso e il crollo psicologico della nuora, che – stremata – chiama il 112 e si costituisce. La neonata di sei mesi della coppia viene affidata ai servizi sociali. Una vicenda di una crudeltà quasi indicibile che sconvolge la comunità locale.
Il secondo episodio è di pochi giorni fa, a Forio d’Ischia. Un uomo di 69 anni, Antonio Luongo, si apposta dalla mattina sotto le abitazioni della famiglia dell’ex moglie. Nel tardo pomeriggio fa irruzione: uccide il compagno della donna, il 48enne Nunzio Russo Spena, e la madre di lei, la 63enne Zinoviya Knihnitska; poi spara all’ex moglie, 43 anni, che lotta tra la vita e la morte, e infine si toglie la vita. L’arma, secondo le cronache, era detenuta illegalmente e con matricola abrasa. La donna viene trasferita in eliambulanza al Cardarelli di Napoli e resta in prognosi riservata.
Due storie distanti eppure speculari: nel primo caso il bersaglio è un uomo, nel secondo una donna e la sua famiglia; qui l’autore è di sesso maschile, là le autrici sono due donne. In comune, però, c’è la violenza estrema che distrugge ogni cosa: corpi, affetti, comunità, fiducia sociale.
Quando la cronaca diventa clava ideologica
Quello che sconcerta, oltre al dolore dei fatti, è la velocità con cui una parte del dibattito pubblico – soprattutto sui social – trasforma la cronaca in clava ideologica. Davanti all’omicidio di Gemona, alcune voci del web si sono affrettate a leggere il sezionamento del cadavere non come un tentativo di occultamento, ma come “simbolico risarcimento” di presunte violenze subite: un capovolgimento del principio di responsabilità penale in cui la vittima diventa sospetta per definizione e il carnefice assolve sé stesso con una narrazione terapeutica. È il trionfo del “se l’hanno fatto, lui avrà pur meritato”, che non è una tesi: è un pregiudizio.
Specularmente, nell’eccidio di Ischia c’è chi ha usato l’orrore per ribadire una tesi generale e assoluta: “l’uomo è pericoloso”, “l’uomo è tossico”, “ogni donna deve avere paura di tutti gli uomini”. Anche qui non c’è analisi: c’è un teorema. Invece di interrogarsi su fattori concreti – segnali premonitori, accesso alle armi, tempi della risposta istituzionale, dinamiche relazionali degenerative – si preferisce consegnare l’episodio a un eterno processo al genere maschile, indistinto e totalizzante. Ma le generalizzazioni non proteggono nessuno: anzi, accecano.
Il cortocircuito del “tifo di genere”
Il punto è proprio questo: siamo passati dal combattere la violenza a tifare per una narrazione. Quando la violenza colpisce un uomo, una certa eco-camera giustifica o minimizza; quando colpisce una donna, un’altra eco-camera universalizza e assolutizza. Il risultato è un cortocircuito che produce tre danni irreparabili.
Primo: impedisce di vedere le persone. Alessandro Venier non è un simbolo, è una vittima, e così la 43enne di Forio d’Ischia che oggi lotta tra la vita e la morte, come pure i loro familiari che resteranno con ferite che non si chiuderanno più. Ridurre le persone a pedine di un discorso militante è un secondo atto di violenza.
Secondo: disinnesca gli anticorpi sociali. Se ogni delitto viene arruolato dentro una battaglia culturale, chi non si riconosce nella bandiera di turno si ritira nel silenzio o si trincera nella negazione. E così i segnali d’allarme – stalking, minacce, escalation verbale e fisica, controllo ossessivo, isolamento sociale – rischiano di passare inosservati perché inghiottiti da un dibattito che premia il rumore e punisce la complessità.
Terzo: tradisce la causa della lotta alla violenza. La battaglia per la tutela delle donne – e più in generale contro la violenza domestica e relazionale – ha bisogno di credibilità, di rigore, di dati, di servizi concreti, non di slogan identitari. Allo stesso modo, ignorare che esistano anche uomini vittime – di compagne, ex partner, genitori, contesti familiari disfunzionali – significa negare realtà che la cronaca, talvolta in modo atroce, porta a galla.
Due casi, molte domande (giuste)
Che cosa ci dicono, allora, le due vicende? Nel caso di Gemona, al netto delle ammissioni, c’è un contesto familiare che la Procura definisce “complesso” e che va accertato con calma: responsabilità individuali, eventuali maltrattamenti, stato psicologico delle indagate, ruolo della depressione post partum, disegno premeditato o esplosione di un conflitto protratto. La giustizia esiste proprio per questo: ricostruire fatti, non narrazioni. E lo Stato deve garantire tutela a chi è vulnerabile – compresi i neonati coinvolti indirettamente – senza farsi sedurre da ricette ideologiche.
Nel caso di Forio d’Ischia, le domande sono altre: era prevedibile l’escalation? C’erano stati segnali e denunce precedenti? Perché un’arma clandestina è potuta circolare fino a diventare strumento di strage? Quanto ha contato la pianificazione (l’appostamento dalla mattina) e quanto i tempi di intervento? Qui non serve un teorema sul “maschile tossico”: serve rafforzare prevenzione, misure di protezione, controllo delle armi, presa in carico dei casi a rischio.
Né giustificazionismo né generalizzazione: la terza via del realismo
C’è una terza via tra giustificare l’omicidio di un uomo perché “chissà cosa avrà fatto” e trasformare ogni femminicidio in prova che “tutti gli uomini sono un pericolo”. È la via del realismo: condanna senza sconti, rifiuto del giustificazionismo a prescindere dal genere dell’autore, protezione della potenziale vittima prima che il reato accada, attenzione clinica ai segnali (perché la violenza raramente esplode dal nulla), sostegno psicologico e sociale, giustizia rapida e certa.
Realismo significa anche riconoscere che la violenza è una patologia relazionale che assume mille volti. Può essere agita dall’uomo verso la donna, dalla donna verso l’uomo, tra partner dello stesso sesso, tra genitori e figli, tra adulti e anziani. Le categorie morali semplicistiche non spiegano niente, non curano niente, non salvano nessuno. Parlare di violenza vuol dire parlare di potere, controllo, frustrazione, solitudine, dipendenze, tratti di personalità, culture familiari. Tutto il resto è propaganda.
A chi giova la guerra dei sessi?
C’è poi una domanda scomoda: a chi giova il tifo di genere? A chi campa di like e visibilità, certo. Alle piattaforme che monetizzano l’indignazione permanente. Ma soprattutto giova a chi non vuole cambiare nulla. Perché un Paese impegnato a litigare sui massimi sistemi non chiede conto dei minimi, che sono quelli decisivi: quante case rifugio funzionano davvero, quanti centri ascolto per uomini e donne esistono e sono accessibili, quanti protocolli di polizia locale intercettano i casi-limite, quante Procure hanno task force dedicate, quante Asl garantiscono presa in carico tempestiva di depressioni post partum, disturbi di personalità, dipendenze?
La verità scomoda è che prevenire costa, è complicato, richiede equipe miste (forze dell’ordine, magistrati, psicologi, assistenti sociali, mediatori familiari), protocolli chiari e verifiche. Il tifo ideologico, invece, è gratis e immediato: un video di 30 secondi, un post d’effetto, un hashtag, e abbiamo la coscienza a posto. Fino al titolo di cronaca successivo.
Alle femministe vere (e agli uomini veri)
Per questo, un appello. Alle femministe vere – quelle che hanno lottato per diritti concreti, che sanno quanto sia importante proteggere le donne, che conoscono i numeri e le storie – chiediamo di prendere le distanze dalle frange tossiche che trasformano ogni caso in bandiera e che, nel caso di un uomo vittima, insinuano che “in fondo se l’è cercata”. È un tradimento dell’idea stessa di giustizia. E fa male alla causa che dicono di voler difendere.
Agli uomini veri – quelli che non hanno paura di dire che un femminicidio è una tragedia del maschile e del femminile insieme, che sanno guardarsi dentro, che aiutano altri uomini a chiedere aiuto prima che sia tardi – chiediamo di non farsi arruolare nella trincea opposta: il vittimismo identitario maschile è l’altra faccia dello stesso narcisismo. La risposta non è “noi contro loro”, ma “noi con chi soffre e rischia”.
Dialogo a 360°, qui e ora
Dialogo non significa buonismo. Significa smettere di mentire a sé stessi. Vuol dire “dire no” alla violenza in ogni forma, “no” al giustificazionismo quando l’autore è donna, “no” alla generalizzazione quando l’autore è uomo. Vuol dire investire su prevenzione e cura, responsabilizzare chi sbaglia, proteggere chi denuncia, intervenire prima che il proiettile parta o che il primo schiaffo diventi strangolamento. Vuol dire, soprattutto, riconoscere che la giustizia non ha genere: ha nomi, date, prove, responsabilità.
La cronaca di questi giorni ci ricorda che indietro non si torna: a Gemona la vita di un uomo è stata spezzata e oltraggiata, a Ischia sono state sterminate due persone e una terza combatte per sopravvivere. Il minimo che possiamo fare, come comunità, è rifiutare il tifo, pretendere serietà da chi comunica e da chi amministra, e costruire davvero – insieme – gli argini perché l’orrore non si ripeta. Tutto il resto è rumore di fondo.