Charlie Kirk è stato ucciso a colpi di pistola in un campus universitario nello Utah. Nel giro di un paio d’ore, prima ancora che la polizia mettesse un nome e un volto all’indiziato, i due schieramenti politici avevano già scritto la sceneggiatura: la destra ha urlato al complotto della “sinistra violenta”, la sinistra ha risposto con un “non strumentalizzate”. Poi è arrivato il fermo di Tyler Robinson, giovane cresciuto in una famiglia repubblicana, pro-Trump, con una cultura delle armi respirata sin da bambino. Da lì in poi, le certezze hanno iniziato a crollare, ma la giostra della propaganda non si è fermata.
E qui sta il punto: invece di fermarsi ad analizzare il contesto, la politica e i media hanno preferito usare il caso come arma da campagna elettorale. Ma se vogliamo capire davvero perché un ragazzo prende in mano un’arma e decide di sparare, dobbiamo andare a vedere i mondi sotterranei dove queste identità si formano: il sottobosco politico americano, la galassia incel, le subculture digitali di videogame e chat.
Il sottobosco politico americano: fabbrica di radicalismi
L’America non è mai stata solo rossa o blu. Il cuore della politica statunitense pulsa in una miriade di sottoboschi che pochi vedono, c’è l’universo evangelico, che muove milioni di voti e miliardi di dollari; ci sono i think tank iper-ideologizzati, che producono narrazioni chiavi in mano per i politici, ci sono organizzazioni come Turning Point USA, fondata da Kirk, che pescano studenti nei campus e li trasformano in soldati culturali.
E poi ci sono le frange ancora più oscure, come i “Groypers” di Nick Fuentes, movimento che vive di livestream, meme tossici e retorica suprematista, ma che riesce a influenzare persino i discorsi dei grandi leader. È un sistema circolare: il linguaggio radicale nasce in chat anonime, diventa battuta virale, si trasforma in slogan da comizio. In questo ciclo, un proiettile con inciso “Bella ciao” non è prova di appartenenza politica, ma la dimostrazione che la cultura digitale è diventata il principale campo di battaglia ideologica.
Il problema? Nessuno vuole ammetterlo, perché farlo significherebbe riconoscere che la vera politica americana non si fa al Congresso, ma nei forum, nei podcast estremisti e nei meme che girano più veloci di qualsiasi legge approvata a Washington.
Ritratto dal sottobosco: i Groypers
I Groypers nascono come un gruppo di troll, con un simbolo apparentemente innocuo: una rana obesa e sorridente, variante grottesca del più noto Pepe the Frog. Ma dietro questa estetica da cartone si nasconde un laboratorio politico che ha saputo conquistare migliaia di ragazzi. La loro forza sta nel linguaggio: battute sporche, meme assurdi, provocazioni calcolate, il loro leader, Nick Fuentes, gioca alla caricatura di se stesso: ride, insulta, esagera. Ma il risultato è micidiale.
Il groyperismo è un perfetto esempio di come funziona il sottobosco politico americano: non è un partito, non ha sezioni, non ha tessere, è una community liquida, che vive di live streaming e chat. Ogni giovane che si collega trova un’identità pronta: “noi siamo i veri difensori dell’America bianca”, non servono comizi, non servono giornali, non servono leader carismatici alla vecchia maniera. Basta un microfono e una connessione.
L’impatto è stato enorme: politici repubblicani hanno dovuto fare i conti con il loro linguaggio, alcuni l’hanno ripudiato, altri hanno strizzato l’occhio e mentre la politica ufficiale cercava di ignorarli, i Groypers continuavano a crescere. È questo il punto: non servono milioni di iscritti per spostare il discorso pubblico bastano migliaia di ragazzi che parlano la lingua giusta al momento giusto.
Il mondo incel: odio travestito da comunità
Poi c’è il mondo incel, l’“involuntary celibate”, celibe involontario. Non è solo gente che non fa sesso: è una subcultura che trasforma la frustrazione personale in odio collettivo. Le donne diventano “Stacy”, i maschi “alfa” che riescono con le ragazze sono i “Chad”. Gli incel si raccontano come vittime di un sistema che li esclude, e cercano vendetta.
Dentro i forum incel circolano manifesti che incitano alla violenza, celebrazioni di killer che hanno sparato contro donne, e una retorica vittimista che si mescola con neonazismo e complottismo. È un mondo sotterraneo, ma potentissimo: ci sono migliaia di ragazzi che ci entrano ogni giorno, spesso senza rendersene conto, cercando semplicemente “consigli” sull’amore e trovandosi risucchiati in una spirale di odio.
Quando la politica ride di questi fenomeni o li liquida come “nerd frustrati”, commette un errore colossale perché ogni volta che un incel prende un’arma e spara, dietro non c’è un episodio isolato, ma una cultura che lo ha nutrito.
Ritratto dal mondo incel: Elliot Rodger
In questo ambiente, il nome Elliot Rodger pesa come un macigno. Nel 2014, a Isla Vista, in California, uccise sei persone e lasciò un manifesto delirante di oltre cento pagine. Non era solo un massacro, era un atto performativo: Rodger voleva essere ricordato e infatti oggi è ricordato, ma non come mostro, nei forum incel è chiamato “Supreme Gentleman”, un titolo paradossale, un’icona.
Questa mitizzazione è forse l’aspetto più inquietante della subcultura incel, invece di respingere il gesto, molti ragazzi lo trasformano in ispirazione. Nei forum si leggono frasi come “ha avuto il coraggio che noi non avremo mai”, oppure “la sua vendetta è stata giusta”, ecco come un assassino diventa modello: non per quello che ha fatto, ma per il modo in cui ha dato un nome alla frustrazione.
La storia di Rodger ha creato una genealogia: dopo di lui ci sono stati altri attentati, spesso con riferimenti diretti al suo manifesto. Giovani che hanno trovato in quelle pagine la legittimazione della propria rabbia è questo che la politica non capisce: gli incel non sono solo ragazzi isolati, sono una comunità che si alimenta di miti tossici, che trasforma fallimenti personali in ideologia, che organizza il rancore come fosse militanza.
Videogame e chat: il nuovo bar del paese
Molti politici continuano a oscillare tra due frasi fatte: “i videogame non c’entrano nulla” e “i videogame sono la causa della violenza giovanile”, entrambe sono menzogne comode. La verità è che i videogame non producono assassini, ma sono spazi sociali giganteschi, le nuove piazze dove milioni di ragazzi passano ore ogni giorno, sono luoghi di identità, amicizie, rivalità, linguaggi condivisi.
Un server di Call of Duty, di Fortnite, di Minecraft o di Helldivers 2 non è solo una partita: è un’arena dove si parla, si urla, si scherza, si insulta, si crea cultura. Un adolescente impara a conoscere slang, riferimenti, meme non guardando talk-show televisivi, ma restando in cuffia con altri dieci sconosciuti in giro per il mondo. È lì che nascono appartenenze, lì che si forma il linguaggio comune di una generazione.
Dentro queste community convivono due anime, da un lato, quella innocua e goliardica: il meme stupido, la risata condivisa, la battuta trash che non ha alcun intento politico. Dall’altro lato, c’è la parte oscura: battute razziste lanciate come provocazioni, simboli neonazisti usati come sticker, slogan estremisti ripetuti come se fossero barzellette. Non perché ogni ragazzo sia un fanatico, ma perché la violenza si infiltra attraverso l’ironia: oggi ridi di una battuta antisemita, domani la ritrovi in un manifesto terroristico.
E poi ci sono gli spazi ancora più chiusi e pericolosi: Telegram, Discord, server privati. Qui il filtro sparisce del tutto in alcuni canali si condividono video violenti, propaganda suprematista, manuali su come fabbricare ordigni artigianali o su come costruire un arsenale casalingo. Il passaggio è rapido: dal gruppo vocale dove si scherza sui “nemici del match” alla stanza segreta dove si parla di jihad, razza bianca o rivoluzione armata.
I videogame non sono il problema, ma sono l’habitat perfetto per certi fenomeni: anonimato, complicità goliardica, linguaggio memetico. Tre elementi che, combinati, diventano terreno fertile per chi sa manipolare. Ed è qui che la politica perde la bussola: perché non conosce questo mondo, non lo frequenta, non lo capisce. E se non capisci il linguaggio dei tuoi figli, non puoi nemmeno accorgerti quando quel linguaggio si trasforma in radicalizzazione.
Ritratto dal mondo gamer: Helldivers 2
Per capire il cortocircuito, basta guardare a Helldivers 2. È un videogioco cooperativo di fantascienza, ambientato in un universo militarizzato e satirico, dove i giocatori combattono alieni sotto un regime che ricorda tanto quello descritto da Starship Troopers. Dentro il gioco, per attivare un bombardamento, appare la frase: “Hey, fascist! Catch!”. In cuffia, detta tra amici, fa ridere: è un modo teatrale di dire “attenzione, sto lanciando la bomba”.
Ma quella frase, incisa sul proiettile usato per uccidere Charlie Kirk, smette di essere ironia, diventa marchio di morte. È il perfetto esempio di come un linguaggio nato per il divertimento possa essere strappato dal contesto e trasformato in segno politico o ideologico, non perché il gioco sia colpevole, ma perché viviamo in una società che non ha più filtri culturali per distinguere l’ironia dal fanatismo.
E questo non riguarda solo Helldivers. In Fortnite ci sono state skin usate come simboli di identità politica; in Minecraft alcuni server privati hanno ricostruito campi di concentramento o luoghi di culto come palcoscenico per la propaganda. Non è il software a spingere alla violenza, ma l’uso che ne fanno comunità chiuse, spesso fuori controllo.
Il vero problema è che questi ambienti non vengono presi sul serio. Quando un politico si azzarda a citare un videogioco, lo fa solo per dire che “è troppo violento” o che “bisogna censurarlo”. Nessuno che provi a capire il linguaggio che si sviluppa lì dentro, la simbologia, le dinamiche sociali. Il risultato? Un mondo parallelo in cui i giovani vivono e crescono senza alcuna guida, e in cui la radicalizzazione può insinuarsi indisturbata.
Il tifo politico e la superficialità
In mezzo a tutto questo, la cosa più deprimente è vedere come l’utente medio reagisce. Nei gruppi Telegram di politica, nei commenti Facebook, nelle chat di sezione, tutti diventano esperti di geopolitica americana, di radicalizzazione online, di sociologia dei videogame. In realtà molti di loro non leggono nemmeno un articolo per intero, si limitano a condividere lo slogan che più li fa sentire parte della squadra.
E così assessori, consiglieri comunali e parlamentari ripetono a pappagallo frasi lette su un post, convinti di fare analisi. È la morte del pensiero critico: un Paese che parla di cose che non conosce, che non studia, e che riduce tutto a “noi contro loro”.
Politici vecchi, giovani altrove
La verità è che i politici parlano ai pensionati, non ai ragazzi. Parlano di “valori della famiglia” mentre i giovani vivono su Discord; parlano di “ideali patriottici” mentre i ragazzi si riconoscono in community globali di gamer; parlano di “nuove generazioni” senza sapere neanche cosa sia un meme.
Questo è il dramma: una politica che non sa più dove stanno i giovani, e quindi li lascia soli nelle mani di chi quei linguaggi li conosce benissimo — estremisti, troll, predicatori dell’odio.
Una conclusione che non piace a nessuno
Alla fine, il caso Kirk non ci dice che “la sinistra è violenta” o che “la destra è tossica”. Ci dice che viviamo in un mondo dove la radicalizzazione nasce dal basso, nei sotterranei della rete, e che la politica preferisce urlare slogan piuttosto che guardare in faccia la realtà.
Un uomo è morto, un giovane è in carcere, e milioni di persone hanno condiviso bufale, slogan e menzogne travestite da analisi. La lezione sarebbe semplice: studiare prima di scrivere, tacere prima di accusare, capire prima di urlare. Ma questa è la lezione che nessuno vuole imparare, né a Washington né a Roma.