Nel silenzio ovattato di una casa di Gemona, in Friuli, è andato in scena un atto di violenza familiare tra i più efferati che la cronaca italiana ricordi. Un figlio assassinato, fatto a pezzi con un seghetto, nascosto in un bidone con la calce viva, come nei peggiori incubi da cronaca nera. Ma questa non è una fiction. È la storia vera di Alessandro, 35 anni, ucciso dalla madre, Lorena Venier, con l’aiuto della compagna Mailyn Castro Monsalvo, madre della sua bimba di pochi mesi.
E mentre la magistratura cerca di ricostruire l’orrore con gli strumenti del diritto — premeditazione, occultamento, vilipendio del cadavere, presenza di un minore — il circo dei social ha già emesso la sua sentenza parallela. E lì, tra TikTok e Instagram, è iniziato un festival dell’idiozia umana che merita di essere analizzato, smontato, e svergognato una volta per tutte.
L’assassinio freddo e premeditato: altro che raptus
Non c’è nulla di impulsivo in ciò che è accaduto. Non è stato un raptus, non è stato un momento di follia. È stato un omicidio studiato nei dettagli. La madre ha ordinato calce viva su Amazon, ha raccontato al PM con freddezza il metodo per sezionare il corpo usando un seghetto e un lenzuolo, ha illustrato come l’omicidio fosse “necessario” per “salvare” la vita della nuora. Mailyn, dal canto suo, ha partecipato attivamente: ha aiutato a soffocare l’uomo con i lacci delle scarpe, ha spostato i resti nel bidone. Poi, sopraffatta dal peso del crimine, ha chiamato il 112.
A rendere tutto ancora più agghiacciante c’è la presenza della neonata in casa. Un dettaglio che da solo meriterebbe l’intervento immediato di ogni forma di tutela. Eppure, in mezzo a tutta questa disumanità, c’è chi ha avuto il coraggio — o l’idiozia — di giustificare, minimizzare, addirittura celebrare.
Quando il social diventa tribunale: il giudizio delle nazi-femministe
Nel marasma digitale, il crimine ha subito una strana mutazione semantica: da atto efferato e ingiustificabile a gesto liberatorio. A farsi portavoce di questa follia, una manciata di tiktoker, note più per l’intonazione da cartone animato che per la profondità del pensiero. Donne che si autodefiniscono femministe, ma che del femminismo non hanno capito nulla. Urlano che “l’uomo se l’è meritato”, che “chissà quante ne ha fatte per spingere due donne a tanto”, e altre sciocchezze degne di una setta disturbata.
Alcune usano la tecnica del “parlare a puntini”, tipo “u.c.c.i.d.e.r.e”, per aggirare l’algoritmo e non farsi bannare. Il paradosso è che hanno più paura dell’algoritmo che del buon senso, più timore di TikTok che del codice penale. Ma quel che è peggio è che non parlano da sole: hanno seguito, commenti, condivisioni. Segno che la cultura dell’odio verso l’uomo non solo esiste, ma è pure monetizzabile.
Un crimine è un crimine, anche se lo commette una donna
Il punto, però, è un altro: questo omicidio non è una questione di genere, è una questione di giustizia. Non importa se Alessandro fosse problematico, tossicodipendente, aggressivo, disturbato. Nessuno ha il diritto di farsi giustizia da solo. Nessuno ha il diritto di uccidere e fare a pezzi un essere umano per poi nasconderlo in un bidone come spazzatura organica.
E soprattutto, nessuno ha il diritto di usare un crimine come megafono per le proprie frustrazioni ideologiche, per attaccare genericamente gli uomini, per portare avanti la narrativa tossica secondo cui l’uomo è sempre colpevole e la donna sempre vittima.
Il pericolo dell’ideologia: “sei colpevole perché sei uomo”
Se c’è una frase che riassume tutto questo delirio, è proprio quella che alcune influencer hanno espresso chiaramente: “La violenza ce l’hai dentro, perché sei uomo”. Una generalizzazione ignorante e pericolosa, che trasforma la biologia in una colpa e il sesso in una condanna.
Dire che “gli uomini sono violenti per natura” è esattamente come dire che le donne sono isteriche, o manipolatrici, o bugiarde per natura. È la stessa, identica logica di chi opprime. Solo che oggi viene travestita da liberazione.
È un concetto che dovrebbe spaventare chiunque abbia un cervello ancora funzionante. È la premessa di ogni totalitarismo morale: non importa chi sei, sei colpevole per ciò che rappresenti.
Le vere femministe? Per fortuna esistono
A bilanciare questa ondata di schifo, va detto che molte donne hanno alzato la voce per dire basta. Vere femministe, quelle che lottano per l’uguaglianza e non per la vendetta. Donne che hanno rigettato questa narrazione tossica e hanno avuto il coraggio di dire una cosa semplice: questa volta la colpa è tutta femminile. Punto.
E no, non è una sconfitta per il femminismo ammetterlo. È l’unico modo per dare dignità alla battaglia contro la violenza vera, quella che non ha genere. Perché la violenza non è rosa o blu: è mostruosa, sempre. E chi la giustifica, anche solo a parole, è parte del problema.
Non è un caso isolato: il precedente ideologico
Non è la prima volta che i social trasformano un crimine in spettacolo. Da Johnny Depp a Andrew Tate, passando per casi italiani meno noti, l’uomo è diventato il bersaglio perfetto per chi vuole ridurre tutto a uno scontro di genere. E anche quando la realtà è complessa, disturbante, contraddittoria, ecco che arriva la semplificazione: “se sei maschio, sei colpevole”.
È un’ideologia che non vuole giustizia, ma vendetta, che non cerca verità, ma nemici, che non emancipa, ma incattivisce. Un’ideologia che non costruisce, ma brucia. E che va denunciata con forza.
Se la giustizia tace, parli almeno il buonsenso
Ora, mentre la giustizia seguirà i suoi tempi e valuterà la responsabilità delle due donne — tra richieste di perizia psichiatrica e pericolo di fuga — resta un enorme punto interrogativo: come siamo arrivati al punto in cui si giustifica un omicidio in base al genere della vittima?
È questa la cultura che vogliamo? Una cultura che misura i crimini in base al sesso di chi li commette? Una società dove l’odio cambia solo faccia, ma resta odio?
La sorellanza che finisce con una chiamata al 112
La solidarietà femminile, tanto sbandierata a colpi di hashtag, finisce nel momento in cui parte una chiamata d’emergenza. È lì che le complicità costruite sull’odio si sgretolano, lasciando spazio al panico, alla paura, alla verità che si impone come un macigno. La lucidità con cui Lorena Venier ha raccontato le fasi dell’omicidio mostra un progetto studiato nei dettagli, ma incrinato dalla fragilità psichica di Mailyn, già provata da una grave forma di depressione post partum.
Ed è proprio lei, Mailyn, a tradire il piano. La voce rotta, la disperazione, la paura, tutto si riversa in quella telefonata al 112 in cui accusa la suocera di aver ucciso suo figlio. Sullo sfondo, si sente una lite tra le due donne e il pianto straziante del neonato. È una scena da film horror, ma vera. Quando i carabinieri arrivano, trovano Mailyn in stato confusionale e Lorena che tenta maldestramente di ridimensionare il tutto, come se si potesse sgonfiare un cadavere con qualche scusa.
Ma la diga è rotta. Mailyn crolla e indica il bidone. Quello dove erano nascosti i resti dell’uomo che, fino a poco prima, era il padre di sua figlia. Così, nel punto di non ritorno, la sorellanza si spezza, e il delitto diventa finalmente pubblico. Fine della complicità, inizio del processo.
Alessandro è morto. Ma anche il buon senso lo è
Alessandro è morto. Ma anche il buon senso lo è, se restiamo in silenzio.
Serve una riflessione seria. Serve dire con chiarezza che nessuna ideologia giustifica un omicidio, che nessuna causa vale la morte di un essere umano, e che nessun hashtag può lavare la coscienza di chi applaude un cadavere.
Se la nostra società è arrivata a questo punto, forse è tempo di smettere di puntare il dito solo contro chi ha ucciso col seghetto, e iniziare a guardare anche chi, col cellulare in mano, uccide ogni giorno la verità.



