Tre carabinieri tre bare e una parte d’Italia che piange i carnefici

Tre carabinieri, tre bare e una parte d’Italia che piange i carnefici

Per capire davvero la vicenda dei fratelli Ramponi bisogna tornare indietro al 28 gennaio del 2012, su una strada di campagna tra Trevenzuolo e Castel d’Azzano. È lì che morì Davide Meldo, camionista, 35 anni, mentre tornava a casa dopo una giornata di lavoro. Non fu una tragedia del destino, ma un incidente provocato da un trattore senza fari, senza lampeggianti, immerso nella nebbia e – si scoprirà poi – senza assicurazione. Alla guida c’era uno dei fratelli Ramponi. Davide non poté evitarlo: lo colpì in pieno, il mezzo prese fuoco, e lui morì bruciato vivo.

La sorella, Valeria Meldo, ha ricordato così quella sera e tutto ciò che seguì: «Non ricordo quanto ci dovesse quella famiglia, so solo che la maggior parte delle cifre che hanno pagato sono andate per le multe, a noi non è arrivato alcun risarcimento. Quella notte giravano con il trattore a fari spenti e senza lampeggianti, nella nebbia fitta. Mio fratello non ha potuto evitarli. Ora, oltre alla mia famiglia, ne hanno rovinate altre tre».

Parole dure, ma necessarie. Perché prima di parlare di disperazione, di ingiustizie sociali o di colpe dello Stato, bisognerebbe ricordarsi che le tragedie hanno una memoria, e quella memoria ha nomi e volti. Davide Meldo, i suoi genitori morti di crepacuore tre anni dopo, e ora tre carabinieri uccisi nel sonno. Tutto parte da qui non da un romanticismo di provincia, non da un titolo poetico, ma da una lunga catena di irresponsabilità.

Una comunità che si è fatta carico, non uno Stato assente

In queste ore, molti commentatori si sono precipitati a trovare una chiave “sociale” per giustificare quanto accaduto. Su tutti, Concita De Gregorio, che su la Repubblica ha scritto un articolo in cui, ancora una volta, la colpa ricade sullo Stato, accusato di aver abbandonato i fratelli Ramponi. Secondo lei, se qualcuno arriva a far saltare in aria una casa uccidendo tre uomini in divisa e ferendone diciassette, la radice è “l’indifferenza istituzionale”.

Ma basta leggere le carte e ascoltare chi in paese li conosceva per capire che questa narrazione è profondamente falsa. I Ramponi erano seguiti dai servizi sociali, avevano un medico di base che li monitorava costantemente, uno zio prete che cercava di aiutarli sia come familiare che come uomo di chiesa, e persino un casolare in montagna messo a disposizione dal Comune, completo di terreno per tenere gli animali.

Altro che abbandonati. Erano una famiglia assistita, tollerata, compresa oltre ogni limite, anche quando la comunità stessa cominciava ad averne paura. Si parla di denunce, comportamenti aggressivi, violazioni continue delle regole. Ma, nel clima del “poverini, sono disperati”, si è chiuso un occhio, poi due, poi tutti. E quando la cronaca diventa una bomba che devasta un casolare e uccide tre servitori dello Stato, ci si affretta a dire che è colpa dello Stato stesso. Un cortocircuito morale che racconta molto più di noi che dei Ramponi.

La narrazione tossica della “colpa collettiva”

Non è bastato l’articolo della De Gregorio, ci si è messa anche Ilaria Salis, che dopo anni di battaglie contro le sue ingiustizie carcerarie ora parla di “corresponsabilità politica”. Secondo lei, alla radice di quei “gesti disperati” ci sarebbe “la negazione di un diritto fondamentale, che genera sofferenza e disagio in fasce sempre più ampie della popolazione”. Ovviamente parla della casa.

Gesti disperati? Chiamiamoli con il loro nome: un attentato, premeditato e micidiale.
Perché se fai in modo che un intero casolare diventi una maxi bomba e calcoli il momento e il luogo in cui esploderà, non stai compiendo un gesto “disperato”, stai decidendo di uccidere.

Eppure, nel gioco delle parti, la Salis e i suoi sostenitori si affrettano a puntare il dito contro la “politica cattiva”, contro un sindaco che – guarda caso – non è del colore giusto per il loro racconto. Si parla di “povertà sistemica”, di “diritto alla casa”, di “fallimenti istituzionali”, come se la miccia accesa a Castel d’Azzano fosse solo un sintomo di una malattia sociale più grande. Ma non è così.

Qui non si parla di povertà qui si parla di odio, vendetta, rabbia cieca, e della convinzione – ormai dilagante – che tutto sia perdonabile se lo si veste di disperazione. Che tutto sia comprensibile se lo si impacchetta nella retorica del “diritto negato”, ma i diritti non includono il diritto di uccidere.

Le vittime vere: tre carabinieri e diciassette feriti

C’è un audio che dovrebbe essere trasmesso in loop, ogni volta che qualcuno apre bocca per giustificare i Ramponi. È la telefonata di un carabiniere che chiama in caserma dopo l’esplosione. In sottofondo si sentono urla, lamenti, il metallo contorto, il crepitio delle fiamme, quelle voci sono la realtà non le parole dei talk show, non i titoli a effetto, quella è la realtà.

Tre carabinieri sono morti, tre servitori dello Stato, uomini che rappresentano quella stessa istituzione che oggi viene accusata di essere “corresponsabile” di chi li ha uccisi. E diciassette persone, tra cui civili, sono finite in ospedale in codice rosso. Diciassette vite appese a un filo, per un gesto definito “disperato”.

La disperazione non giustifica la violenza e soprattutto, non può cancellare la responsabilità personale perché ogni volta che qualcuno prova a trasformare un assassino in vittima, si oltraggia la memoria dei veri innocenti.

È facile indignarsi contro lo Stato quando non si hanno fatti, ma qui i fatti sono chiari: c’era chi voleva vendetta, chi voleva “farla finita con tutto”, e ha deciso di trascinare con sé chiunque. Non un grido di aiuto, ma un atto di offesa, calcolato e codardo.

Il vizio italiano della giustificazione morale

C’è un male antico in questo Paese: il bisogno di trovare una giustificazione nobile per ogni gesto ignobile. Un male che scorre nei commenti, nei titoli, nei post condivisi. “Poverini, erano disperati”. “Lo Stato li ha abbandonati”. “È colpa del sistema”.

No, non è colpa del sistema. È colpa di chi accende la miccia e sceglie di distruggere. È colpa di chi non distingue più tra dolore e odio, tra bisogno e rabbia, tra ingiustizia e vendetta.
E forse anche di chi, in televisione o sui giornali, continua a parlare di “gesti di disperazione” invece di chiamarli per quello che sono: crimini.

Concita De Gregorio, Ilaria Salis e tutti quelli che oggi trasformano i Ramponi in martiri dimenticano un dettaglio: la responsabilità personale è il primo pilastro della civiltà. Se cade quello, cade tutto. Cade la legge, cade il senso del limite, cade la differenza tra vittime e carnefici.

In un Paese serio, chi fa esplodere una casa e uccide tre carabinieri viene condannato senza appello morale. In Italia, invece, gli si scrive addosso una poesia. Ed è questo il vero fallimento collettivo. Non quello delle istituzioni, ma della coscienza.

Il rumore della realtà

Se davvero vogliamo capire la misura di questa tragedia, basta riascoltare quella telefonata, quella voce rotta che urla “aiuto” tra le fiamme. È in quel suono, nei lamenti dei feriti, che si misura la distanza tra la verità e la retorica. Tra la realtà e la propaganda.

Perché mentre qualcuno parla di “gesti disperati”, l’Italia vera piange tre bare tricolori, tre uomini che hanno servito lo Stato fino alla fine.
E in quel silenzio che resta dopo l’esplosione, dovremmo avere il coraggio di dire la cosa più semplice e più scomoda: non tutto si spiega, non tutto si perdona, e non tutto si può giustificare.

Il resto è propaganda. E la propaganda, come sempre, uccide due volte: la verità e la giustizia.

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