Riarmo globale: una corsa pericolosa che ignora i veri bisogni

Riarmo globale: una corsa pericolosa che ignora i veri bisogni

Nel pieno del terzo decennio del XXI secolo, mentre l’umanità affronta sfide esistenziali come il cambiamento climatico, le pandemie, la crescente disuguaglianza sociale e l’insicurezza alimentare, i governi di molte nazioni stanno rispondendo con una strategia tanto obsoleta quanto inquietante: il riarmo.

I dati parlano chiaro. Secondo il rapporto del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), nel 2024 la spesa militare globale ha raggiunto un nuovo massimo storico, superando i 2.240 miliardi di dollari. Ma la domanda fondamentale che dobbiamo porci è: questa corsa agli armamenti ci sta davvero rendendo più sicuri?

Una crescita senza precedenti

La guerra in Ucraina ha riacceso la paura di un conflitto su scala continentale, spingendo i paesi europei ad aumentare vertiginosamente le spese per la difesa.

La Germania ha annunciato un fondo speciale da 100 miliardi di euro per rinnovare il proprio esercito, un’operazione che ha cambiato radicalmente la sua storica reticenza post-bellica a investire massicciamente nel settore militare. L’Italia ha progressivamente incrementato il bilancio della difesa, arrivando nel 2024 a stanziare oltre 28 miliardi di euro, con un incremento del 17% rispetto a tre anni prima.

La Polonia, nel frattempo, ha varato un piano di armamento senza precedenti per diventare una delle forze militari più importanti dell’Europa centro-orientale, acquistando centinaia di carri armati, elicotteri e sistemi antimissilistici dagli Stati Uniti e dalla Corea del Sud.

Ma l’Europa non è sola. Gli Stati Uniti restano i leader indiscussi della spesa militare, con un budget che supera i 900 miliardi di dollari. Anche la Cina, l’India, l’Arabia Saudita e la Russia stanno ampliando le proprie capacità belliche, giustificando tali aumenti con ragioni di deterrenza, difesa regionale e proiezione geopolitica.

Questa escalation crea un effetto domino: ogni aumento di spesa da parte di un paese spinge i vicini a fare lo stesso, alimentando una spirale senza fine, che ricorda la corsa agli armamenti del periodo della Guerra Fredda.

Un costo sociale altissimo

Ogni miliardo destinato agli armamenti è un miliardo sottratto ai bisogni civili. La pandemia di COVID-19 ha messo a nudo le debolezze dei sistemi sanitari nazionali, rivelando la fragilità di strutture che, in molti paesi, non ricevono investimenti adeguati da decenni.

Eppure, anziché investire in strutture sanitarie, personale medico, ricerca scientifica o educazione, molti governi stanno preferendo acquistare carri armati, jet da combattimento e sistemi missilistici ad alta tecnologia. La giustificazione? La difesa nazionale. Ma è davvero la priorità in un mondo dove milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile o a cure mediche di base?

In Italia, il dibattito pubblico raramente affronta con serietà la questione del bilancio della difesa. Eppure, mentre aumentano le risorse per nuove armi, persistono gravi carenze nei servizi essenziali.

Gli edifici scolastici sono spesso fatiscenti, le liste d’attesa nella sanità pubblica si allungano, e il mercato del lavoro resta stagnante con giovani sempre più sfiduciati. Inoltre, i fondi per la transizione ecologica, le politiche per l’infanzia e il sostegno alle famiglie vengono spesso ritagliati o rimandati. Quale priorità stiamo scegliendo come società? Dove vogliamo essere tra dieci, venti, trent’anni?

Sicurezza apparente, rischi reali

Uno degli argomenti più usati per giustificare l’aumento delle spese militari è quello della sicurezza. Ma questa sicurezza, spesso, è solo apparente.

I conflitti non si prevengono con l’accumulo di armi, ma con la prevenzione diplomatica, l’ascolto delle tensioni sociali e la mediazione internazionale. Il riarmo, al contrario, può diventare esso stesso una minaccia. Più armi circolano, maggiore è il rischio di escalation accidentali, colpi di mano, guerre per errore o per calcolo sbagliato. Le tensioni nel Pacifico tra Cina e Taiwan, così come gli scontri in Medio Oriente, sono esempi di contesti dove la presenza di armamenti avanzati non ha garantito stabilità, ma ha aumentato l’incertezza.

Inoltre, esiste un aspetto ancora più inquietante: la corsa agli armamenti nucleari. Dopo decenni di riduzione graduale, alcune potenze stanno riammodernando i propri arsenali atomici, integrandoli con nuove tecnologie come testate ipersoniche o sistemi autonomi.

La dottrina della “deterrenza” nucleare si basa su un equilibrio instabile e pericoloso, che in caso di fallimento può avere conseguenze catastrofiche per tutta l’umanità. Non si può parlare di vera sicurezza globale finché esistono arsenali capaci di distruggere il pianeta più volte.

L’industria della guerra: chi ci guadagna davvero?

Dietro il riarmo si nasconde un enorme business. Le grandi aziende produttrici di armamenti — come Lockheed Martin, BAE Systems, Leonardo, Thales — registrano profitti record grazie a contratti milionari con gli stati. In molti casi, i confini tra politica e industria bellica sono labili. Lobbisti, think tank e media contribuiscono a creare un clima di costante emergenza e insicurezza, spingendo l’opinione pubblica ad accettare come inevitabile l’aumento delle spese militari.

Non si tratta solo di difesa, ma di un vero e proprio modello economico che trae vantaggio dalla guerra, dalle tensioni e dalla paura. Questo modello, tuttavia, è insostenibile, sia dal punto di vista morale che ambientale. La produzione e l’uso di armi inquinano, distruggono, sottraggono risorse a settori vitali. Inoltre, perpetuano una visione del mondo basata sulla forza, sulla sopraffazione, sul dominio.

Verso un’alternativa: la sicurezza umana

La vera sicurezza non si misura in numero di missili, ma nella capacità di garantire ai cittadini accesso all’acqua, al cibo, alla salute, all’educazione e a un ambiente sano. Il concetto di “sicurezza umana”, elaborato dalle Nazioni Unite, invita a considerare la dignità delle persone come centro delle politiche pubbliche. È una sicurezza che parte dal basso, dalla prevenzione dei conflitti, dalla giustizia sociale, dalla protezione dei diritti.

Esistono esempi virtuosi. La Costa Rica ha abolito l’esercito nel 1949 e oggi investe in educazione e sanità, ottenendo risultati impressionanti in termini di sviluppo umano. Paesi come la Nuova Zelanda e l’Islanda adottano strategie di sicurezza basate sulla cooperazione internazionale, sulla diplomazia preventiva e sulla sostenibilità. Altri paesi nordici, come la Norvegia, affiancano una solida difesa territoriale a una politica estera fortemente orientata alla mediazione nei conflitti internazionali.

L’Unione Europea stessa, sebbene oggi coinvolta in una spinta al riarmo, ha nel proprio DNA fondativo l’idea di “pace attraverso l’integrazione”. Questo patrimonio culturale e politico non va dimenticato. La costruzione di ponti, non di muri; di dialogo, non di minacce; dovrebbe tornare al centro dell’agenda politica.

Il ruolo della società civile

La responsabilità non è solo dei governi. Anche i cittadini possono influenzare le politiche di spesa militare attraverso il voto, la partecipazione, l’informazione. La società civile ha il dovere di porre domande scomode, di chiedere trasparenza, di proporre alternative. È necessario un nuovo movimento di opinione pubblica, capace di rompere il monopolio del discorso bellico nei media e nelle istituzioni.

Le campagne per il disarmo nucleare, le reti pacifiste, le associazioni per i diritti umani svolgono un lavoro prezioso, ma troppo spesso invisibile. I media mainstream, infatti, tendono a dare più spazio a scenari di guerra che a proposte di pace. Eppure, senza un’opinione pubblica consapevole, nessun cambiamento è possibile. Le università, le scuole, i sindacati e le organizzazioni religiose possono diventare centri di elaborazione di un nuovo immaginario collettivo, che rifiuti la logica della violenza sistemica.

Un bivio storico

Il riarmo non è un destino ineluttabile. È una scelta politica, culturale, economica. In un’epoca segnata da sfide globali che richiedono cooperazione, solidarietà e lungimiranza, investire in armi è un errore strategico e morale. Continuare su questa strada significherebbe ignorare le vere priorità della nostra epoca e preparare il terreno a nuove catastrofi.

Abbiamo bisogno di una nuova visione della sicurezza, che metta al centro le persone e il pianeta, non i profitti e le paure. Il futuro non si costruisce con le bombe, ma con la giustizia sociale, la pace e la speranza. È tempo di scegliere da che parte stare, con coraggio, consapevolezza e responsabilità.

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