Quando la morale è a gettone

Quando la morale è a gettone: il caso “Mia Moglie” e la fragilità di una narrazione che crolla appena cambia un dettaglio

La notizia della scoperta del gruppo Facebook “Mia Moglie” è stata una di quelle bombe che, una volta cadute, non lasciano il tempo di respirare. Nel giro di pochi minuti la rete si è trasformata in un gigantesco tribunale digitale, con migliaia di creator, commentatori improvvisati, attivisti da timeline e indignati professionisti pronti a sparare la propria sentenza definitiva. Non era ancora chiaro come funzionasse il gruppo, chi ci fosse dietro, quali meccanismi avessero permesso di far crescere una community tossica fino a 32mila iscritti, e già il colpevole collettivo era stato scelto, processato e condannato senza appello: gli uomini.

Il fatto che gli utenti fossero “per lo più uomini” è bastato a chiunque per decretare che l’intera vicenda fosse un “caso di patriarcato violento”, l’ennesima dimostrazione della “cultura maschilista strutturale” che permeerebbe ogni piega della società. Non un ragionamento articolato, non un tentativo di capire le dinamiche digitali, psicologiche, sociali o affettive dietro a quel fenomeno; solo un grande, comodo, rassicurante coro di condanna generalizzata che rimbalza perfettamente nel formato verticale del video reattivo, dell’opinione a caldo, della “presa di posizione” costruita su template già pronti.

Il problema non è la condanna, che è non solo sacrosanta ma dovuta, quanto la scorciatoia ideologica, una scorciatoia che fa comodo perché evita di analizzare la complessità.

Invece di osservare un fenomeno per quello che è, un ecosistema digitale tossico composto da soggetti diversi, dinamiche relazionali disturbate, narcisismo, desiderio di controllo, machismi interiorizzati e, sì, anche donne complici, si è preferito trasformarlo nell’ennesima scusa per rinnovare la guerra dei sessi a colpi di hashtag e indignazione preconfezionata.

È una dinamica già vista, già raccontata, già digerita cento volte sui social: non servono fatti, bastano categorie.

La tentazione di trasformare un caso in un simbolo: quando la realtà viene compressa per far spazio alla retorica

L’ondata moralista che si è abbattuta nei primi giorni non nasce dal desiderio di capire, ma dalla necessità di avere un nemico semplice, riconoscibile e spendibile. In un’epoca in cui il dibattito pubblico sembra essere costantemente alimentato da slogan, da identità granitiche e da schieramenti rigidi, il caso “Mia Moglie” è stato subito trasformato da fatto di cronaca a simbolo politico.

Il patriarcato non è più una struttura culturale da analizzare, ma un’etichetta da appiccicare ovunque.
Gli uomini non sono più individui, ma una massa indistinta che porta colpe collettive, la violenza non è più un comportamento, ma una proprietà essenziale di un genere.

E così tutto diventa più semplice: non bisogna interrogarsi sul perché esistano uomini che pubblicano foto delle proprie partner senza consenso; non bisogna chiedersi che tipo di relazioni distorte, fragili, disturbate esistano dietro quei comportamenti; non bisogna nemmeno prendere in considerazione che la violenza digitale abbia tante facce e che alcune non si riconoscano nemmeno a una prima occhiata. Basta puntare il dito e recitare il copione.

La velocità con cui questo meccanismo si è ripetuto è quasi impressionante: nel giro di un’ora dall’uscita della notizia i video indignati erano già in tendenza su TikTok, tutti con la stessa struttura narrativa, la stessa colonna sonora, lo stesso climax di condanna moralistica.

Ed è curioso notare come questa indignazione si accenda molto facilmente quando si tratta di additare un uomo, ma scompaia quando la vittima denuncia qualcosa che non è “politicamente strategico”.
Come nel delitto di Gemona del Friuli, prontamente trasformato da molti profili femministi in un caso-simbolo ancora prima che i fatti fossero chiari, nel quale la realtà è stata immediatamente piegata a un frame narrativo ideologico senza nemmeno un istante di sospensione.

La storia non interessa più per ciò che è, ma per ciò che si può farle dire.

L’eterno silenzio sui contenuti rubati delle creator non famose: una doppia morale che si ripete senza vergogna

E qui entra in gioco un altro pezzo fondamentale di questa vicenda, uno che viene costantemente ignorato da chi parla solo quando la notizia diventa utile.
Per anni esiste un mercato sommerso, gigantesco, sistematico, devastante, fatto di contenuti rubati a migliaia di donne: creator di OnlyFans, ragazze comuni, studentesse, lavoratrici, influencer minori, madri, sorelle, amiche.
Una quantità impressionante di video sottratti con hacking, phishing, accessi indebiti, ex partner vendicativi, screenshot clandestini.

Un archivio criminale che esiste da più di dieci anni, in cui ogni giorno circolano migliaia di file di donne che non hanno mai dato consenso.
Le creatrici di contenuti hanno denunciato tutto questo infinite volte, spesso ignorate, spesso derise, spesso tacciate di “se l’è cercata”.

E qui sta il punto: quando le vittime non sono famose, non esiste indignazione, non esiste risonanza mediatica, non esiste solidarietà, non esistono creator che si lanciano in crociate morali.
Silenzio totale.

Poi, improvvisamente, quando l’ondata di furti tocca influencer note, allora il tema diventa urgente, “da affrontare subito”, e i media scoprono magicamente che esiste un problema chiamato “revenge porn” che fino al giorno prima non sembrava così interessante.

Questo doppio standard è una delle facce più ipocrite dell’attivismo digitale: la violenza è un problema solo quando coinvolge qualcuno di famoso.

La notizia che fa crollare tutto: tra i gestori del gruppo c’è una donna. E ora chi fa il video indignato?

E poi arriva la svolta, quella che manda in tilt tutto il castello costruito in precedenza, la polizia postale identifica tra i gestori del gruppo non un uomo, non il “mostro maschio alfa” dei video su TikTok, ma anche una donna. Una figura femminile che partecipava attivamente alla moderazione, alla pubblicazione e alla selezione dei contenuti.
Una donna che “curava” un sistema basato sull’umiliazione di altre donne.

Un dettaglio devastante perché dimostra che la narrazione binaria, uomini carnefici, donne vittime, non regge nemmeno un colpo quando si incontra la realtà.

E da questo momento in poi tutto si fa interessante perché adesso aspettiamo di vedere qualcosa che molto probabilmente non accadrà: un’ondata di indignazione femminista contro la donna coinvolta, con la stessa forza con cui era stata scagliata contro gli uomini in generale.

Aspettiamo i video, i duetti indignati, le chiamate alla responsabilità collettiva del genere femminile, aspettiamo la stessa energia, lo stesso tono accusatorio, la stessa certezza morale.

Aspettiamo, e probabilmente aspetteremo a lungo.

Perché questa notizia non è spendibile, non rafforza il racconto politicizzato, non alimenta la dicotomia buoni/cattivi. Rischia invece di mostrare qualcosa di molto più scomodo: che la violenza digitale, quando nasce su internet, può essere messa in atto da chiunque, indipendentemente dal genere.

E questo, per molti, è inaccettabile.

La pagina nera dell’attivismo: le chat private piene di insulti sessisti contro altre donne

A complicare ulteriormente il quadro c’è il precedente imbarazzante delle chat private delle attiviste femministe, venute alla luce qualche settimana fa.
Quelle chat rivelavano una realtà molto diversa da quella pubblicamente esibita: in privato volavano insulti pesanti contro altre donne, comprese figure come Michela Murgia, Selvaggia Lucarelli e Liliana Segre.
Non un paio di sfoghi, ma insulti sistematici, commenti tossici, body shaming, offese gratuite, perfino derisioni becere.

La reazione di molte loro sostenitrici? “Erano chat private”.
Una giustificazione che sarebbe ridicola anche in bocca a un quindicenne pizzicato a fare screenshot in una conversazione di gruppo, figuriamoci se pronunciata da chi fa dell’etica pubblica il proprio manifesto quotidiano.

Se sei un’attivista, se basi la tua visibilità su valori, diritti, equità, lotta ai pregiudizi, non puoi essere così incoerente.
Non puoi vivere un doppio binario, fare la moralista a telecamera accesa e la hater quando credi di essere al sicuro.
Non puoi pretendere che gli altri siano perfetti mentre tu ti concedi il lusso delle bassezze, soltanto perché nessuno dovrebbe vederle.

Questa vicenda ha solo confermato una cosa che molti sospettavano da tempo: l’attivismo digitale è spesso una performance, non un principio.
Un vestito politico che si indossa quando serve e si toglie quando nessuno guarda.

La vera radice del problema: la violenza digitale è trasversale e la propaganda la rende invisibile

Il punto centrale, in tutta questa vicenda, è che la violenza digitale non ha genere, la violenza è un comportamento, non un cromosoma.
La complicità è un gesto, non un’identità politica, il male non ha una sola faccia e certamente non coincide con quella contro cui alcuni creator si scagliano per convenienza narrativa.

La diffusione di contenuti intimi senza consenso nasce da dinamiche patologiche della relazione, da narcisismo, da necessità di appartenenza tossica, da bisogno di approvazione, da perversione emotiva, da miseria affettiva: tutte cose che non sono prerogativa di un sesso o dell’altro, ma prodotti di una cultura deformata.

Ed è proprio questo che la narrazione ideologica teme: la complessità, perché la complessità non si monta in un reel.

La vicenda è molto più grande della morale a senso unico

Il caso “Mia Moglie” non è un incidente isolato né un evento irrilevante: è uno specchio, uno specchio che ci mostra quanto sia fragile la nostra capacità di leggere la realtà senza subito trasformarla in arma politica o contenuto virale.
Uno specchio che ci restituisce la nostra fame di colpevoli collettivi e la nostra paura di affrontare la verità: che la violenza digitale è un fenomeno trasversale, radicato, indifferente al genere, alimentato da chiunque veda l’altro non come persona ma come oggetto espositivo.

Adesso che la notizia della donna amministratrice è uscita, molti si guardano intorno sperando che passi in fretta, che il dettaglio venga ignorato, che nessuno usi questa informazione per mettere in discussione la narrazione comoda.
Ma questo dettaglio non è marginale: è centrale.

E raccontarlo, con tutta la sua scomodità, è la sola cosa onesta da fare.

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