Quando la dignità vale meno di un click: il caso Bova e il mercato dell’umiliazione

Quando la dignità vale meno di un click: il caso Bova e il mercato dell’umiliazione

C’è qualcosa di profondamente malato nel modo in cui oggi trattiamo le persone. Non parlo solo di celebrità, ma di esseri umani con una vita, affetti, figli, relazioni complesse. Nell’epoca dei contenuti usa e getta, tutto può diventare intrattenimento: un messaggio vocale, una crisi coniugale, un momento di debolezza. E più è intimo, più “funziona”. L’importante è che faccia numeri, che porti visibilità, che scateni una reazione.

Quanto siamo disposti a scendere?

Il caso che coinvolge Raoul Bova è solo l’ultimo esempio di quanto in basso siamo disposti a scendere pur di monetizzare un dramma privato. Una relazione personale trasformata in carne da macello per podcast e social, un uomo esposto al pubblico giudizio non per ciò che ha fatto in un’aula di tribunale, ma per ciò che ha detto in confidenza. Il tutto condito dal solito gioco delle parti, con influencer, pr e personaggi border line che si affrettano a prendere le distanze ma restano comunque al centro del circo mediatico.

Il punto non è solo “cosa c’è negli audio”, ma perché siamo arrivati al punto di considerarli notizia, e a chi conviene che lo siano. Il valore di un essere umano sembra ormai inferiore a quello di un post virale. E il danno arrecato – alle persone coinvolte, alle loro famiglie, ai figli – è sempre un effetto collaterale trascurabile, se il guadagno in termini di notorietà è abbastanza alto.

Abbiamo perso completamente la misura delle cose. E in questo baratto grottesco tra privacy e visibilità, tra verità e narrazione, l’unico vero perdente è il rispetto per l’altro.

Raoul Bova nel tritacarne mediatico di bassa lega

Uno degli attori più amati del panorama italiano, il volto rassicurante di fiction e film di successo, oggi si ritrova al centro di un caso mediatico e giudiziario che ha tutti gli ingredienti del thriller: chat private, audio vocali, influencer, imprenditori, e l’immancabile firma di Fabrizio Corona. La vicenda è esplosa lo scorso 21 luglio, quando nel podcast Falsissimo, lo stesso Corona ha diffuso pubblicamente una serie di messaggi e vocali scambiati tra Raoul Bova e una giovane modella trentenne, Martina Ceretti.

A prima vista sembrerebbe solo gossip di bassa lega, ma dietro quei messaggi affettuosi e intimi – «Buongiorno essere speciale dal sorriso meraviglioso» – si nasconde qualcosa di più inquietante: una presunta minaccia, un possibile ricatto e un’indagine aperta dalla Procura di Roma per tentata estorsione. E le conseguenze, per l’attore, potrebbero andare ben oltre la semplice crisi sentimentale con la sua compagna storica, Rocío Muñoz Morales.

Il ruolo di Fabrizio Corona: scoop o trappola mediatica?

A dare il via al polverone è stato Fabrizio Corona, ex fotografo dei vip e oggi autore del podcast Falsissimo, che da mesi pubblica contenuti esplosivi spesso ottenuti da canali non ufficiali. Gli audio di Raoul Bova, resi pubblici senza alcun filtro, contengono frasi dall’intonazione affettuosa ma non esplicitamente compromettente. Tuttavia, la loro diffusione ha immediatamente fatto rizzare le antenne a magistrati e avvocati.

Corona, in questa storia, si presenta come il megafono, ma non è (almeno per ora) al centro dell’indagine. La Procura valuta la possibilità che possa aver commesso il reato di ricettazione, se dovesse emergere che i file gli siano stati consegnati in modo illecito.

L’ombra del ricatto: quel messaggio anonimo su WhatsApp

Ma cosa ha davvero fatto scattare l’indagine della magistratura? Pochi giorni prima della pubblicazione degli audio, Raoul Bova ha ricevuto un messaggio WhatsApp da un numero sconosciuto: «Sai che tra poco pubblicano delle cose che ti riguardano? Se vuoi evitare tutto questo, parliamone». Il testo, a metà tra il consiglio e la minaccia, è bastato per mettere in allarme l’attore e il suo entourage. Il numero risultava intestato a un prestanome, e gli inquirenti sospettano che quel messaggio fosse un tentativo di estorsione mascherata, senza richiesta esplicita di denaro ma con l’evidente intento di ottenere qualcosa in cambio del silenzio.

L’intrigo si allarga: spunta il nome di Federico Monzino

Nella vicenda fa capolino anche un altro nome: Federico Monzino, 29 anni, imprenditore milanese molto noto negli ambienti vip. Secondo alcune indiscrezioni, sarebbe stato proprio lui a far arrivare gli audio a Corona. Monzino, però, respinge con forza ogni accusa, dichiarando pubblicamente di non essere indagato e di voler tutelare la propria immagine attraverso vie legali. Anche lui, al pari di Corona e Ceretti, è stato ascoltato come persona informata sui fatti, ma le indagini sono ancora in pieno svolgimento.

Lo schifo dietro il caso: tra ipocrisia, giustificazioni e voyeurismo da quattro soldi

E come sempre accade, quando il vaso si rompe e i cocci cominciano a tagliare, arriva puntuale la sfilata dei “non sono stata io”, “mi dissocio”, “sono stata travisata”. Martina Ceretti, la giovane modella coinvolta nello scambio di audio con Raoul Bova, ha scelto di cancellarsi da Instagram, pubblicando un messaggio da manuale dell’autoassoluzione: «Mi dissocio, sono stata descritta come una ragazza che non sono». Ma le domande restano. Perché quegli audio erano nelle mani sbagliate? Perché sono finiti a Fabrizio Corona? E soprattutto: chi ci ha guadagnato in visibilità e attenzione?

Intanto la magistratura fa finalmente il suo lavoro: la Procura di Roma ha aperto un’indagine per tentata estorsione. L’indagato, anche se lui come scritto sopra si confessa innocente, sarebbe un pr milanese, amico della modella, che avrebbe preso gli audio – evidentemente rubati – e li avrebbe usati come arma per un presunto ricatto nei confronti dell’attore. A Raoul Bova è infatti arrivato un messaggio ambiguo da un numero spagnolo: «Sai che tra poco pubblicano delle cose che ti riguardano? Se vuoi evitare tutto questo, parliamone». Il tutto condito da un botta e risposta surreale, da manuale del manipolatore. «Non è che voglio estorcerti dei soldi», dice il mittente anonimo. «A me sembra proprio così», risponde Bova. «Stiamo cercando di venirti incontro… Questo è materiale pesante nelle mani di Fabrizio».

Un meccanismo marcio dove tutto ha un prezzo

Siamo davanti all’ennesimo esempio di come la privacy oggi valga meno di una storia su Instagram. Di come tutto possa essere merce: i sentimenti, i legami, le parole dette a mezza voce. Nessuno si è fatto scrupoli nel trattare la vita privata di Raoul Bova come un trailer da lanciare in anteprima, col solo scopo di guadagnare notorietà. Il suo tentativo di proteggere la sua famiglia – spiegando che la relazione con Rocío Muñoz Morales era già finita da tempo – è stato spazzato via dal cinismo di chi, con un file audio in tasca e un numero spagnolo in mano, ha pensato bene di trasformare una vicenda intima in una puntata di Falsissimo.

E mentre la magistratura sequestra telefoni e ricostruisce la catena dei passaggi, i social si trasformano nell’arena del disonore, dove l’unica legge che conta è quella del click facile, e dove nessuno si prende la briga di chiedersi cosa significhi davvero essere vittima di un ricatto, di un’esposizione forzata, di una gogna mediatica che non lascia scampo.

Il teatrino dei tiktoker e la fiera dell’ipocrisia

Ma il peggio, come sempre, arriva dopo quando entra in scena la feccia dei social, Tiktoker in cerca di attenzione che usano gli audio di Bova per fare lipsync ridicoli, tra sorrisi ammiccanti e scenette da scuola media, con l’intento di far ridere un pubblico incapace di capire quanto sia meschino tutto questo. Una nuova forma di umiliazione pubblica a puntate, condita da meme, remix, video reaction e battutine di bassa lega.

E poi ci sono loro, i leoni da tastiera travestiti da opinionisti, sempre pronti a commentare con un cinismo da bar dello sport, ma con l’aria di chi ha la verità in tasca. Commenti al limite della querela, insulti mascherati da ironia, giudizi sprezzanti su persone che nemmeno conoscono. Tutti bravissimi, per carità, a parlare di bullismo, di body shaming, di rispetto per le donne, di salute mentale, ma quando si tratta di massacrare qualcuno che è finito al centro dello scandalo, allora tutto è concesso. Perché? Perché è un vip? Perché è famoso? Allora può essere sbranato senza pietà?

E allora la domanda è: dov’è la coerenza?

Ogni giorno parliamo di educazione digitale, di rispetto, di sensibilità ma alla prima occasione utile, siamo i primi ad alimentare il tritacarne e questa vicenda lo dimostra in modo grottesco: un uomo vittima di un possibile ricatto, con una famiglia esposta e una vita privata devastata, viene trasformato in un meme da usare come passatempo.

Se il rispetto vale solo per chi è anonimo, allora abbiamo perso la bussola, se un vip può essere fatto a pezzi senza alcuna empatia, allora non è più questione di gossip è questione di umanità, o meglio, della sua assenza.

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