La frase è di quelle che fanno rumore, ma non per la profondità: «A me non basta sopravvivere, voglio godermi la vita e concentrarmi solo su OnlyFans». Parole di Asia Vitale, ospite de La Zanzara, trasmissione cult di Radio 24. Dietro la sua voce una storia drammatica: una violenza sessuale di gruppo a Palermo nel 2023. Un fatto orribile, devastante, che avrebbe distrutto chiunque. Eppure, da quel trauma Asia ha deciso di “rinascere” aprendo un profilo su OnlyFans. Racconta che per lei il sesso è sempre stato importante, una parte della sua identità, e che quel corpo violato è diventato lo strumento per fare soldi e – parole sue – per superare il trauma.
Il primo mese su OnlyFans, dichiara, ha incassato 9.000 euro facendo video espliciti in coppia o a tre. La motivazione? «Con 1400 euro al mese non campavo. Che altro avrei dovuto fare?».
Ecco, fermiamoci un attimo qui. Perché in questa frase si condensano tre problemi gravi: uno economico, uno culturale e uno sociale.
1400 euro non bastano? Davvero?
In un Paese dove l’ISTAT certifica che lo stipendio medio netto si aggira attorno ai 1.350 euro al mese, sentire una ragazza di 24 anni dire che con 1400 euro “non ci campava” è un insulto bello e buono. E non a chi fa i milioni su OnlyFans, ma a chi si spezza la schiena 8 ore al giorno in fabbrica, in un call center o in un supermercato, portando a casa a malapena mille euro al mese, se tutto va bene. Gente che non solo “ci campa”, ma magari mantiene pure una famiglia.
Asia ha tutto il diritto di scegliere la sua strada, anche se è fatta di nudi e video porno amatoriali, ci mancherebbe. Ma presentare quella scelta come l’unica via di fuga da uno stipendio da fame è semplicemente una distorsione della realtà. Una scorciatoia pericolosa, soprattutto se chi ascolta è una ragazza giovane, fragile, magari senza un soldo in tasca e con l’illusione che basti aprire un account per diventare ricca e libera.
Il mito tossico di OnlyFans: soldi facili e piacere assicurato
Siamo alla follia: negli ultimi anni OnlyFans è diventata, per molti, una specie di Eldorado digitale. Basta un telefono, un corpo piacente e qualche didascalia provocante e il gioco è fatto. Ma questa è la favola. La verità è un’altra: il 90% di chi apre un profilo su quella piattaforma non fa nemmeno 100 euro al mese. Perché ci vuole visibilità, strategia, costanza, marketing e soprattutto una determinata tipologia fisica.
Perché inutile girarci attorno: OnlyFans funziona solo se sei sessualmente commerciabile. E no, non basta “essere se stessi”. Bisogna rispondere a uno stereotipo ben preciso. E Asia, da questo punto di vista, ha le carte in regola: giovane, siciliana verace, corpo conforme agli standard del porno contemporaneo. Ma non è la regola. È l’eccezione.
Far passare il messaggio che con 1400 euro non ci si vive e che l’unica alternativa sia spogliarsi davanti a una webcam è tossico, sbagliato e culturalmente pericoloso.
Il trauma e il sesso come liberazione: un cortocircuito psichico?
Ora, non voglio certo mettere in dubbio il dolore di Asia. Ha subito qualcosa di orrendo, che merita condanna e giustizia. Ma da qui a dire che fare porno è un modo per elaborare uno stupro, c’è un salto logico che mi rifiuto di accettare senza farci una riflessione.
Perché se un uomo dicesse che per superare un’aggressione ha deciso di vendere il proprio corpo online, lo prenderebbero per pazzo. E invece, quando lo fa una donna, guai a dirle qualcosa: è la sua libertà, la sua autodeterminazione, la sua rinascita.
Ma davvero postare “mi piace la banana” su Instagram è una tappa della guarigione psicologica? Davvero la via d’uscita da un trauma così profondo è il commercio del proprio corpo sul web?
No. Quella è una narrazione comoda per chi ci guadagna, per chi ha interesse a normalizzare un certo tipo di contenuto, per chi vuole spingerci sempre più verso l’ipersessualizzazione di massa.
Il problema non è OnlyFans. Il problema è il messaggio
Perché chiariamoci: il problema non è la piattaforma. OnlyFans è un contenitore. Può essere usato per vendere foto erotiche o per fare tutorial di cucina. Il problema è il messaggio che molte creator vogliono far passare, e che viene rilanciato da media compiacenti, podcast, interviste e reel a raffica su TikTok.
Il messaggio è questo: se sei carina e un po’ disinibita, puoi fare soldi veri senza dover lavorare come una sfigata per 1400 euro al mese.
E questa è una colossale presa per il culo. Perché le piattaforme non ti garantiscono nulla. Per ogni ragazza che guadagna 9.000 euro in un mese, ce ne sono centinaia che restano lì, nude, a rincorrere like e manette rosa senza portare a casa nulla, se non l’illusione di valere qualcosa perché qualche maschio frustrato ha pagato per vederle.
Asia, il marketing e l’ipocrisia digitale
Facciamo un ultimo appunto: Asia, consapevolmente o meno, sta facendo marketing. Il suo dolore è diventato contenuto. La sua esperienza è stata impacchettata, brandizzata, portata in radio e su Instagram. Con tanto di bio da barzelletta e frasi ad effetto.
Ma se davvero il sesso per lei è diventato una forma di espressione, allora qualcuno dovrebbe avere il coraggio di chiederle: è ancora sesso o è solo business? È piacere o è la versione aggiornata dello sfruttamento in prima persona, versione 2025?
E ancora: se oggi fa l’attivista, domani la pornostar, dopodomani la vittima e il giorno dopo ancora la guru del self empowerment, non sarà che ha capito come muoversi in un mondo in cui il trauma è merce e la pornografia è empowerment solo se c’è un link in bio con l’abbonamento mensile?
Una società che vive di scorciatoie
Asia non è il problema. Asia è un sintomo. Il sintomo di una generazione cresciuta con i like al posto dell’autostima e i soldi facili al posto dell’impegno. E questo vale per le donne quanto per gli uomini, sia chiaro. Il mito della scorciatoia, del “faccio video hot così evito di fare la commessa”, è diventato più forte di qualsiasi discorso sulla dignità del lavoro.
Non è moralismo, è buon senso. Perché se cominciamo a dire che 1400 euro non bastano a vivere, che spogliarsi online è terapia e che la banana su Instagram è resilienza, allora è chiaro che qualcosa è andato storto.
Siamo un Paese in cui il lavoro vero vale meno della visibilità, in cui un account social conta più di un curriculum. Ma attenzione: se continuiamo così, il conto arriverà. E non sarà in dollari, ma in fallimenti personali, in depressione, in disillusione.
Asia può raccontare la sua storia, certo. Ma noi abbiamo il diritto – e il dovere – di farci delle domande. E anche di rispondere. Senza filtri, senza ipocrisie e soprattutto senza la paura di sembrare bacchettoni.
Perché, parafrasando un vecchio adagio, se tutto è liberazione, allora nulla lo è davvero.