Ci sono misure legislative che nascono già vecchie, altre che nascono già inutili, e poi ci sono quelle che nascono già morte, come questo grande e pomposo impianto di “verifica dell’età” che avrebbe dovuto impedire ai minori di accedere ai siti pornografici, un progetto presentato come un baluardo di civiltà digitale e che invece si è rivelato fin da subito un monumento alla distanza siderale che separa la politica italiana dalla realtà quotidiana dell’ecosistema digitale.
Non appena è entrato in vigore, con tutta la retorica del caso e con la solita narrazione eroica secondo cui l’Italia avrebbe finalmente “protetto i suoi giovani”, ci si è resi conto che non solo i controlli non controllavano nulla, ma che l’intero impianto normativo si reggeva su presupposti tecnici inesistenti e su una visione dell’uso della tecnologia da parte dei minori che somiglia più a un romanzo di fine Ottocento che a un’analisi credibile del presente.
La verità, che si è rivelata immediatamente evidente a chiunque avesse anche solo una vaga familiarità con internet, è che l’intero sistema si fonda su un’illusione: quella di poter chiudere il mare con un tappo, pretendendo che un meccanismo di verifica su una manciata di siti possa in qualche modo rappresentare una barriera effettiva in un mondo dove i contenuti si muovono a velocità supersonica attraverso milioni di canali, piattaforme e gruppi privati.
L’idea del controllo: una goccia nell’oceano digitale
Mentre si faceva un gran parlare del 12 novembre come della data epocale in cui sarebbe finalmente terminata la stagione dell’autocertificazione, quel celebre banner “Ho più di 18 anni – Entra” che esisteva più come rito folcloristico che come reale barriera, si dimenticava un dettaglio che da solo basterebbe a stroncare qualsiasi entusiasmo: il controllo riguarda appena 45 siti.
Quarantacinque su migliaia e migliaia di portali pornografici accessibili in ogni momento, da ogni dispositivo, in ogni forma possibile e immaginabile. Pensare che un elenco così esiguo, peraltro già ridotto perché più di un sito ha deciso di auto-escludersi, rappresenti un’azione concreta è come illudersi che vietare l’ingresso a tre bar possa ridurre il consumo globale di alcol.
E la situazione diventa ancor più grottesca se si considera che, già al primo giorno, solo tre di questi portali avevano implementato qualcosa di vagamente simile a un sistema di verifica, mentre tutti gli altri continuavano a funzionare esattamente come prima, come se nulla fosse accaduto, lasciando qualsiasi utente libero di accedere senza difficoltà, ricordandoci che la tecnologia, quando non esiste o non viene applicata, non può essere compensata con la propaganda.
Il fantasma del “doppio anonimato”: un’idea nobile senza alcun corpo tecnico
La chicca narrativa del provvedimento, quella che dovrebbe rassicurare gli adulti sulla tutela della loro privacy, sarebbe il cosiddetto “doppio anonimato”, un meccanismo in base al quale un soggetto terzo certifica che l’utente sia maggiorenne senza rivelare la sua identità al sito che vuole visitare. Un’idea nobile sulla carta, degna di un paese tecnologicamente avanzato e dotato di infrastrutture che funzionano davvero.
Peccato che questa infrastruttura, per ammissione degli stessi promotori, non esista ancora, non sia pronta, non sia testata e non sarà operativa prima della maturazione dell’Eudi Wallet europeo, un progetto che, come spesso accade, esiste nelle slide, nelle conferenze, nelle speranze, ma non nella vita concreta dei cittadini.
Così il decreto è entrato in vigore senza che il meccanismo centrale che avrebbe dovuto sostenerlo fosse minimamente disponibile, trasformando il tutto in una sorta di teatro dell’assurdo in cui si pretende che un dispositivo incompleto e praticamente inesistente svolga una funzione che non può svolgere. E mentre si alimentano confusione e timori infondati sullo Spid, come se qualcuno stesse immaginando un Grande Fratello erotico che controlla chi guarda cosa, la verità rimane molto più deprimente: non c’è nulla da usare, nulla da implementare, nulla da applicare.
La grande bugia: i minori non accedono al porno dove credono i legislatori
Il problema più serio, e al tempo stesso più ignorato da chi ha scritto queste norme, è che l’intera architettura si basa su un presupposto completamente errato: l’idea che i minori accedano al porno visitando i grandi portali internazionali come Pornhub, Xvideos o YouPorn, cliccando sul banner dell’autocertificazione e sperando che nessuno li scopra.
Questa immagine è così ingenua da risultare quasi commovente, perché descrive un mondo che non esiste più da almeno quindici anni e che sopravvive soltanto nella mente di chi non ha mai avuto a che fare con l’effettivo comportamento digitale degli adolescenti.
Oggi i minori accedono alla pornografia attraverso canali completamente diversi, più veloci, più nascosti e infinitamente meno controllabili. I gruppi Telegram, WhatsApp, Discord e archivi condivisi su cloud esterni sono inondati di contenuti di ogni tipo, spesso rubati da piattaforme a pagamento, altre volte scambiati in maniera totalmente incontrollata tra utenti che si muovono nell’anonimato più totale. Talvolta vi compaiono persino materiali illegali, come video di coetanei, revenge porn scolastico e clip che mai, in nessun paese civile, dovrebbero circolare.
Eppure nessuna legge recente ha previsto un piano per monitorare, prevenire o affrontare questo fenomeno. Nessuno ha parlato di educazione digitale nelle scuole, nessuno ha aperto un dibattito vero sull’uso consapevole degli smartphone, nessuno ha analizzato il ruolo dei genitori, molti dei quali vivono un analfabetismo tecnologico talmente radicato da non sapere nemmeno come si attivino le restrizioni di base su un iPhone o un Android.
Il nodo irrisolto: l’incapacità degli adulti di fare gli adulti
Il cuore del problema, che si preferisce ignorare perché scomodo, è che nessuna tecnologia potrà mai sostituire la responsabilità degli adulti che dovrebbero vigilare sui minori, configurare il parental control, controllare periodicamente lo smartphone dei figli, spiegare i rischi, accompagnare verso una maturità digitale e intervenire quando serve. Ogni volta che qualcuno osa suggerire queste banalissime norme di buon senso, ecco spuntare l’accusa ridicola di voler instaurare una qualche forma di polizia familiare, come se essere genitori significasse lasciare i figli in balia del mondo digitale per non essere scambiati per autoritari.
La verità è che un genitore che non controlla il telefono del proprio figlio non sta difendendo la libertà, sta semplicemente rinunciando al proprio ruolo. E se in casa nessuno controlla nulla, nessuna legge potrà mai rimediare alle conseguenze di questa rinuncia.
Il paradosso di OnlyFans e l’ossessione per colpire chi lavora legalmente
Tra tutte le follie generate da questo clima moralista, quella più surreale è l’accanimento nei confronti di OnlyFans, una piattaforma che, contrariamente a ciò che accade altrove, introduce verifiche rigorosissime sull’età dei creator, impone un sistema di pagamento esclusivamente con carte di credito intestate ad adulti e mantiene un livello di trasparenza fiscale e amministrativa che molti altri settori, perfino più tradizionali, non possono vantare. Eppure, invece di riconoscere che qui, paradossalmente, il controllo è già ai massimi livelli possibili, si decide che anche questo va inserito nel grande calderone dei sospetti, dei divieti e dei controlli senza logica.
Il risultato è un accanimento ingiustificato contro una piattaforma che, nel bene e nel male, rappresenta uno degli esempi di economia digitale più solidi e strutturati, dove tutte le transazioni sono tracciate e tutte le attività sono svolte da adulti consenzienti. E mentre si perseguitano i portali che già rispettano le regole, si lascia campo libero ai circuiti paralleli dove la vera illegalità prospera indisturbata.
La tassa etica: quando l’ipocrisia fiscale diventa legge
Il capitolo della tassa etica meriterebbe un trattato a parte, perché rappresenta il perfezionamento dell’ipocrisia normativa. Si introduce un’addizionale del 25% sui guadagni di chi produce materiale pornografico, estendendo questa imposizione perfino alle partite IVA in regime forfettario, con la motivazione che si tratta di un settore moralmente discutibile e dunque meritevole di una pressione fiscale più alta. Un principio che, oltre a essere arbitrario, pericoloso e profondamente discriminatorio, apre la porta a una deriva inquietante: stabilire che il fisco possa intervenire non sulla base di ciò che è legale o illegale, ma sulla base di ciò che è ritenuto moralmente accettabile o inaccettabile da chi governa.
L’assurdo arriva al punto che l’Agenzia delle Entrate si trova costretta a definire che cosa sia pornografia e cosa no, distinguendo tra nudità, autoerotismo, simulazioni, contenuti soft, contenuti hard, arrivando a stabilire persino che le foto dei piedi non dovrebbero rientrare nel perimetro della tassazione. Una tassonomia grottesca, tanto più comica quanto più distante dalla complessità del mondo contemporaneo, che rischia di colpire decine di migliaia di lavoratori autonomi che operano in modo perfettamente legale e trasparente.
Un Paese che scambia la repressione per educazione
Alla fine, ciò che resta di tutta questa vicenda è la sensazione netta che l’Italia confonda la repressione con l’educazione, la burocrazia con il progresso e il moralismo con la tutela. Si costruisce un impianto normativo che non protegge i minori, non educa gli adulti, non colpisce i veri luoghi di rischio, non affronta i problemi strutturali della società digitale e finisce per punire proprio coloro che agiscono nella legalità, creando una spirale paradossale fatta di controlli inefficaci e tasse punitive.
Mentre i legislatori distribuiscono medaglie immaginarie per aver “argomentato” contro l’accesso indiscriminato al porno, i giovani continueranno a utilizzare percorsi alternativi che nessuna legge potrà arginare, gli adulti continueranno a fruire dei contenuti che preferiscono senza incontrare reali ostacoli e i creator continueranno a lavorare in un clima di incertezza fiscale e di sospetto morale che non giova a nessuno.
Il fallimento annunciato
L’Italia ha tentato di costruire un muro contro il mare, immaginando che bastasse una legge per fermare un fenomeno culturale, tecnologico e sociale che richiede ben altro: formazione digitale nelle scuole, responsabilità familiare, programmi educativi seri, investimenti nelle competenze, collaborazione con le piattaforme, interventi veri sui circuiti illegali e soprattutto una visione meno moralista e più pragmatica. Invece si è preferito il colpo di teatro, la soluzione facile, il provvedimento che fa rumore ma non fa effetto, lasciando gli stessi problemi di ieri e aggiungendone altri completamente nuovi.
Il risultato finale è evidente a chiunque voglia guardarlo: non si è protetto nessuno, non si è risolto nulla, non si è educato nessuno. E il tentativo di governare internet con strumenti concepiti per un mondo che non esiste più rimane l’ennesima prova che il Paese non ha ancora capito che la tecnologia non si doma con i decreti, ma con la competenza.





