Quando ho letto la notizia di Paolo, quattordici anni appena, che ha deciso di togliersi la vita, non ho pensato a un titolo di giornale, non ho pensato a un “fatto di cronaca” come tanti, ma ho sentito una fitta che non mi lascia più. Perché se un ragazzo sceglie il vuoto, non è mai solo la sua tragedia, è la mia, è la nostra, è il segno inequivocabile che abbiamo fallito tutti.
Mi sento in colpa anche se non lo conoscevo, anche se non viveva nella mia città, anche se non ero nella sua classe o nella sua famiglia, perché in realtà sono parte di quella società che avrebbe dovuto proteggerlo e che invece lo ha lasciato solo. Non posso fingere che non mi riguardi, non posso rifugiarmi nella comoda bugia che non si poteva sapere, perché i segnali c’erano e non li abbiamo visti, o meglio non abbiamo voluto vederli.
E allora sì, oggi scrivo con la rabbia e con la vergogna addosso, perché questo non è il fallimento di Paolo, è il fallimento mio, tuo, nostro.
Il bullismo non è più quello di una volta
C’è una frase che sento ripetere spesso, soprattutto da chi vuole sminuire: “Il bullismo c’è sempre stato, anche ai nostri tempi”. È la frase che più mi fa arrabbiare, perché è falsa e soprattutto è codarda. Certo che il bullismo esisteva anche venti o trent’anni fa, ma era un’altra cosa, aveva confini, aveva limiti. Si fermava al cancello della scuola, finiva con il suono della campanella, e una volta a casa trovavi un rifugio.
Oggi no. Oggi il bullismo non ha più confini, è ovunque, è in ogni momento della giornata, non ti lascia respiro, non ti lascia tregua. È nei gruppi WhatsApp creati ad hoc per ridicolizzare un compagno, nei canali Telegram che diffondono foto umilianti, nei commenti velenosi su Instagram, nei video di TikTok che trasformano la sofferenza di un ragazzo in un meme da condividere.
Non esiste più il “dopo”, non esiste più un rifugio sicuro. Un adolescente oggi è sotto botta ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette e se noi adulti non riusciamo a capire che questa è la vera differenza, vuol dire che viviamo ancora negli anni ’80, quando bastava cambiare classe per cambiare aria. Oggi non c’è modo di scappare, perché il bullismo ti entra in tasca, ti suona sul comodino, ti sveglia la notte.
I numeri che fanno paura e che ignoriamo
Non sono solo impressioni. I dati ci raccontano una realtà che dovremmo urlare ogni giorno. Secondo l’ISTAT, nel 2023 il 68,5% dei ragazzi tra 11 e 19 anni ha subito almeno una volta comportamenti offensivi o violenti, il 21% ne è vittima in modo ricorrente, e quasi un 10% lo subisce ogni settimana. Significa che non stiamo parlando di casi isolati, ma di una vera epidemia sociale.
Eppure continuiamo a fare finta che siano eccezioni, che si tratti di sfortunate coincidenze, che “capita sempre agli altri”. Ma gli altri chi sono? Gli altri sono i nostri figli, i nostri nipoti, i ragazzi che vediamo per strada, quelli che oggi sorridono e domani potrebbero non esserci più.
Quando leggo questi numeri non riesco a tranquillizzarmi, anzi mi sento più responsabile, perché se sappiamo che la minaccia è così diffusa e non facciamo niente di serio, allora il problema non è solo il bullismo, il problema siamo noi.
Famiglie e istituzioni: una catena che si è spezzata
Un tempo c’era una catena di protezione, la famiglia dava le prime regole, la scuola le rinforzava, le istituzioni disegnavano i confini. Oggi quella catena è spezzata. Le famiglie sono spesso sole, spaesate, troppo occupate a barcamenarsi tra lavoro e problemi quotidiani, a volte incapaci di mettere regole per paura di sembrare autoritarie (ovviamente parlo in generale non di questo caso). La scuola è schiacciata dalla burocrazia, dalle carte da compilare, dai contenziosi, e spesso non ha gli strumenti concreti per intervenire. Le istituzioni preferiscono rifugiarsi in campagne di sensibilizzazione fatte di slogan e video patinati che durano il tempo di un post sui social.
E intanto i ragazzi restano soli. Certo, sulla carta esistono leggi come la 70 del 2024 che obbligano le scuole a nominare referenti antibullismo, a costruire protocolli, a intervenire subito. Ma nella realtà, quante volte questi strumenti vengono usati davvero? Quante volte un genitore trova risposte concrete quando segnala? Quante volte un preside ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e non ridurre tutto a “ragazzate”?
La verità è che noi adulti spesso ci nascondiamo, preferiamo minimizzare, e così lasciamo che le ferite diventino voragini.
I social: un’arena che amplifica il dolore
Non possiamo continuare a far finta che i social siano solo “strumenti neutri”. Non lo sono. Sono progettati per catturare l’attenzione, per trattenere gli utenti il più a lungo possibile, e per farlo premiano i contenuti che generano reazioni. E cosa genera più reazioni di un’umiliazione, di una lite, di un insulto?
Così il dolore diventa spettacolo, la sofferenza diventa intrattenimento. Non è demonizzare la tecnologia, è dire le cose come stanno: se un video crudele fa ridere e viene condiviso, l’algoritmo lo spinge, lo premia, lo rende virale e la vittima non può più nascondersi, perché la sua umiliazione gira di telefono in telefono come una cicatrice eterna.
Noi adulti possiamo ancora spegnere lo schermo, loro no perché lì dentro ci sono i loro amici, i loro legami, la loro identità. Togliere un social a un ragazzo non basta: bisogna insegnargli a usarlo, a difendersi, a riconoscere i pericoli. ma soprattutto bisogna pretendere che chi quei social li gestisce si assuma la responsabilità, perché non si può più arricchirsi con il dolore dei nostri figli.
L’indignazione a intermittenza
Qui arriva il punto che più mi fa arrabbiare. Nell’ultimo mese e mezzo abbiamo visto l’Italia indignarsi a ondate per il caso delle foto rubate e finite su un forum, con nomi come “P***a.net” e “MiaMoglie” che sono diventati simboli di una violazione gravissima. Giusto indignarsi, ci mancherebbe altro, perché quella è stata violenza digitale pura, una vergogna nazionale.
Ma oggi che un ragazzino si uccide dopo essere stato vittima di bullismo per mesi, dove sono tutte quelle voci? Dove sono i TikToker che hanno fatto centinaia di video per dire che era inaccettabile rubare delle immagini? Dove sono gli influencer che hanno pianto davanti a una telecamera parlando di diritti e dignità?
Io li voglio vedere adesso, voglio vederli riempire i social di video contro i bulli, voglio che facciano centinaia di clip per dire ai ragazzi che isolare un compagno non è una moda ma un crimine morale, voglio che abbiano lo stesso coraggio, la stessa rabbia, la stessa capacità di indignarsi che hanno avuto per il gossip.
Perché se la violazione della privacy di un adulto ci fa arrabbiare più della morte di un ragazzo, allora vuol dire che ci siamo persi del tutto.
Non sono ragazzate, sono colpi mortali
Quante volte liquidiamo tutto con un’alzata di spalle? “Sono ragazzate”, “così si fanno le ossa”, “ci siamo passati tutti”. No, non ci siamo passati tutti, non così, non in questo modo. Un soprannome che ti resta appiccicato non è un gioco. Una foto che gira senza sosta non è uno scherzo. Un gruppo WhatsApp che ti esclude e ti ridicolizza ogni giorno non è una ragazzata. Sono colpi veri, che lasciano ferite vere, e a volte quelle ferite diventano mortali.
Le parole hanno un peso enorme, e quando noi adulti le usiamo per minimizzare, stiamo in realtà infliggendo un colpo in più, stiamo dicendo a un ragazzo che il suo dolore non vale abbastanza. E questo non possiamo più permettercelo.
Gli strumenti ci sono, ma non li conosciamo
In Italia esistono strumenti che potrebbero salvare delle vite. C’è il numero 114 Emergenza Infanzia, attivo 24 ore su 24. C’è Telefono Amico Italia (02 2327 2327), pronto ad ascoltare chiunque stia vivendo un momento di crisi. C’è la possibilità di chiedere al Garante della Privacy la rimozione immediata di contenuti offensivi online. Ma quanti ragazzi lo sanno? Quanti genitori lo hanno spiegato ai figli? Quante scuole lo hanno scritto a caratteri cubitali nei corridoi?
Noi preferiamo condividere l’ultimo meme, ma non condividiamo un numero che può fare la differenza. E questo, ancora una volta, è un fallimento che pesa su di noi.
Una comunità che deve reagire
Oggi non basta più il minuto di silenzio, non bastano più i post di cordoglio, non bastano le dichiarazioni indignate dei politici. Oggi serve una comunità che reagisca. Servono i social pieni di voci contro i bulli, servono scuole che facciano applicare davvero le leggi, servono famiglie che abbiano il coraggio di guardare in faccia i propri figli e di insegnare regole, servono istituzioni che non si nascondano dietro le frasi fatte.
Oggi dobbiamo indignarci, davvero, fino a perdere la voce. Perché se non lo facciamo ora, allora non lo faremo mai, e domani ci ritroveremo a piangere un altro Paolo, e sarà ancora troppo tardi.
Una parola per Paolo
Non conoscevo Paolo, ma so che non doveva finire così. So che aveva diritto a vivere, a sbagliare, a crescere, a trovare il suo posto nel mondo. Noi non glielo abbiamo permesso, e per questo oggi mi sento colpevole.
Scrivo per lui, ma scrivo anche per tutti quelli che restano, per i ragazzi che oggi stanno vivendo lo stesso inferno in silenzio, convinti che nessuno li ascolti. Io voglio dirgli che li ascolto, che li vedo, che il loro dolore non è invisibile. E voglio dirlo anche agli adulti: basta minimizzare, basta distrarsi, basta far finta che non sia un problema nostro. È il nostro problema, e se non lo affrontiamo, saremo responsabili della prossima tragedia, e mi domando dove sono oggi qui giornalisti del “se sono un maschio che non parla allora sono colpevole”.
Paolo non è morto da solo. Paolo è morto insieme a noi. E noi oggi dobbiamo avere il coraggio di guardarci allo specchio e ammettere che abbiamo fallito, ma soprattutto dobbiamo prometterci che non falliremo ancora.





