Omicidio impunito e influencer in divisa: così Israele riscrive la realtà e calpesta la verità

Omicidio impunito e influencer in divisa: così Israele riscrive la realtà e calpesta la verità

C’è una verità che ormai non possiamo più ignorare, una realtà talmente brutale e disarmante che solo chi ha deciso consapevolmente di non vedere può continuare a voltarsi dall’altra parte fingendo che tutto sia normale, che tutto sia “complicato”, che tutto abbia due facce. Ma in certe situazioni, no, le due facce non ci sono, e oggi la storia ha due nomi ben precisi che non lasciano spazio a interpretazioni ambigue: Yinon Levi e Odeh Hadalin.

Il primo, Yinon Levi, è un colono israeliano già noto alle cronache internazionali, già sanzionato da Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito e Canada per il suo coinvolgimento in violenze sistematiche e reiterate contro civili palestinesi, dunque un soggetto che ha collezionato un curriculum inquietante di brutalità, prepotenze e impunità. Il secondo, Odeh Hadalin, era invece un attivista palestinese che aveva scelto la via della nonviolenza, una di quelle figure che provano a costruire dignità e resistenza attraverso la parola, il gesto simbolico, l’impegno civile. Due mondi che si sono incrociati tragicamente quando Levi ha sparato e ucciso a sangue freddo Hadalin, senza che ci fosse alcun conflitto, senza che ci fosse alcun pericolo reale per la sua vita, ma semplicemente perché, nel contesto israeliano, uccidere un palestinese sembra essere diventato un gesto banale, privo di conseguenze.

E infatti, la conferma più inquietante arriva subito dopo: Levi viene fermato dalle forze di polizia israeliane, trattenuto per poche ore, e poi rilasciato come se nulla fosse accaduto, come se avesse infranto il coprifuoco o ignorato un cartello stradale, mentre nel frattempo la famiglia della vittima, i parenti di Hadalin, vengono arrestati e trattenuti in carcere senza alcuna accusa formale, privati della libertà senza che nemmeno si tenti di mascherare l’ingiustizia sotto una parvenza di legalità.

La colletta per l’assassino e l’orrore normalizzato

In un mondo razionale, dove la giustizia è ancora un principio condiviso, una simile vicenda avrebbe dovuto scatenare proteste, indignazione, una rivolta morale persino tra le istituzioni più prudenti. E invece no. In Israele accade l’impensabile: si avvia una raccolta fondi pubblica a favore del colono assassino, una campagna che in poche ore raccoglie oltre 150.000 euro, come se Levi fosse una vittima da proteggere, un eroe da sostenere, un uomo ingiustamente perseguitato, quando invece è un killer a piede libero.

Tutto questo avviene mentre i principali media internazionali tacciono, mentre le istituzioni europee biascicano comunicati tiepidi e completamente inadeguati alla gravità della situazione, mentre la comunità internazionale finge di non sapere o si rifugia dietro la solita retorica dell’equilibrio diplomatico, come se fosse ancora possibile mettere sullo stesso piano la vittima e il carnefice.

La propaganda che riscrive la fame

E mentre si seppellisce la verità sotto tonnellate di silenzio, Israele rilancia una delle sue più spudorate operazioni di propaganda, coinvolgendo alcuni influencer internazionali in un press tour ben organizzato, pianificato con cura quasi militare. L’evento si è svolto nei giorni scorsi al valico di Kerem Shalom, uno dei principali punti di accesso alla Striscia di Gaza, dove l’esercito israeliano ha messo in scena una realtà costruita a tavolino: quella in cui i palestinesi non soffrono la fame per colpa del blocco militare o delle restrizioni imposte da Tel Aviv, ma per responsabilità delle Nazioni Unite, accusate di non distribuire gli aiuti che Israele – a detta loro – starebbe invece consegnando “più velocemente di quanto l’Onu riesca a gestire”.

Gli influencer, selezionati tra coloro che da sempre sostengono le posizioni dell’IDF, sono stati accompagnati in un deposito a cielo aperto, dove giacevano scatoloni pieni di viveri, medicine, beni di prima necessità. La sceneggiatura è chiara: “Guardate, il cibo c’è, sono loro che non lo distribuiscono. Non è colpa nostra.” Ma si dimentica, volutamente, che Israele è la potenza occupante e che spetta proprio a chi occupa garantire il passaggio degli aiuti umanitari. E si dimentica, o meglio si nasconde, che la Gaza Humanitarian Foundation, l’unica ONG ammessa da Israele stessa, non è in grado di gestire l’intero fabbisogno di una popolazione devastata dalla guerra, dalla carestia e dai bombardamenti continui.

Influencer in divisa e verità manipolate

Tra i content creator presenti, spicca il nome di Bellamy Bellucci, influencer sudafricana nota per le sue posizioni ultrafilogovernative. Dopo il tour, scrive un post su Instagram: “Lo Stato ebraico non ha alcuna colpa: sono le Nazioni Unite che non hanno distribuito gli aiuti ai civili di Gaza. E l’ho visto con i miei occhi.” Parole che sembrano uscite da un ufficio stampa militare, e che rimbalzano online come verità rivelate, contribuendo a diffondere una narrazione che ribalta completamente il quadro reale, che trasforma gli oppressi in carnefici e viceversa.

Stessa musica per Eylon Levy, ex portavoce del governo israeliano, che ai suoi oltre 300mila follower racconta che “Israele sta consegnando aiuti più in fretta di quanto l’Onu riesca a distribuirli”, accusando l’organizzazione internazionale di lasciare marcire i viveri sotto il sole. Eppure, nessuno di loro spiega cosa blocchi quei camion ai checkpoint, cosa impedisca il passaggio, chi controlli i permessi e soprattutto chi abbia il controllo assoluto su Gaza, anche ora che è ridotta a un cumulo di macerie.

I bambini non sono Hamas. E le bombe non sono giustizia

Davanti a tutto questo, c’è una cosa che va ripetuta senza stancarsi mai, con rabbia, con convinzione, con fermezza: i bambini non sono Hamas, e chi oggi li bombarda, chi distrugge scuole, ospedali, abitazioni con il pretesto che “lì si nascondono i terroristi”, sta commettendo un crimine contro l’umanità. E no, non si può più usare l’Olocausto come scudo ideologico per giustificare qualsiasi nefandezza. La memoria va rispettata, non strumentalizzata. Non si onorano i morti della Shoah sterminando un altro popolo. Non si difende la dignità ebraica riducendo un’intera popolazione alla fame, al terrore, alla morte.

Eppure, oggi più che mai, dai vertici dello Stato israeliano arrivano dichiarazioni disumane, che parlano apertamente di “ripulire Gaza”, di “colpire ovunque serva”, anche a costo di sacrificare civili, donne, bambini. Un linguaggio da regime, da tempo di guerra totale, che non dovrebbe avere cittadinanza nel vocabolario di nessuna democrazia.

Dire no a Israele è un dovere morale, non antisemitismo

È venuto il tempo di chiarire, in modo inequivocabile e definitivo, che prendere le distanze da Israele non significa essere antisemiti, così come denunciare i crimini di Tel Aviv non equivale a negare il diritto di esistere dello Stato ebraico. Significa, molto più semplicemente, essere umani, rifiutare di voltarsi dall’altra parte, riconoscere che non si può più tacere davanti all’orrore. Chi oggi invoca l’antisemitismo ogni volta che si critica Israele, sta facendo un torto agli stessi ebrei, a coloro che – in tutto il mondo – si battono per la pace, per i diritti umani, per la verità.

E allora, davanti all’ennesimo crimine impunito, davanti al corpo di Odeh Hadalin lasciato senza giustizia, davanti alle bugie urlate dagli influencer sponsorizzati dallo Stato, davanti a 150.000 euro raccolti per un assassino, è tempo che il mondo si svegli. Che dica no, con forza, con determinazione, con la stessa lucidità con cui ieri abbiamo detto no ad altri genocidi, ad altri orrori, ad altre propagande.

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