L'omicidio di Charlie Kirk: il fatto, l’uomo, e lo specchio distorto del nostro dibattito

L’omicidio di Charlie Kirk: il fatto, l’uomo, e lo specchio distorto del nostro dibattito

L’evento era all’aperto, nel campus della Utah Valley University, un colpo secco, il panico, la corsa dei presenti. Charlie Kirk, volto di punta del conservatorismo americano e co-fondatore di Turning Point USA, cade colpito tra il collo e la testa mentre stava tenendo il suo consueto momento di confronto con il pubblico.

Viene trasportato in ospedale in condizioni gravissime e muore poco dopo, le autorità federali e statali aprono immediatamente un’indagine; le prime ore sono convulse, tra versioni che si rincorrono e rettifiche: in alcuni lanci si parla di un fermo, poi prevale la linea ufficiale della caccia all’assassino, con l’FBI che diffonde le immagini di una “persona di interesse” e offre una ricompensa per informazioni utili.

È una scena che abbiamo già visto: la cronaca che si muove più veloce della verifica, la realtà che si assesta un passo alla volta. Al netto del rumore, resta una certezza: un attacco mirato, un omicidio politico in pieno giorno, in un campus universitario, con un Paese intero a guardare.

Chi era Charlie Kirk, e perché contava

Per il movimento conservatore statunitense, Kirk non era un commentatore tra i tanti. A 18 anni fonda Turning Point USA e ne fa la cinghia di trasmissione del trumpismo tra i giovani, costruendo una rete capillare di campus, conferenze e micro-eventi dal vivo in cui l’attivismo si fonde con lo spettacolo. Il suo show quotidiano – The Charlie Kirk Show – stabile tra i podcast più ascoltati, macinava, secondo stime riprese da NBC, tra il mezzo milione e i tre quarti di milione di download al giorno, con una presenza social enorme e una capacità rara di trasformare ogni apparizione in un momento virale. È la combinazione che lo rendeva centrale: organizzatore, megafono e volto pop di una destra che parla un linguaggio giovane e riconoscibile.

Non tutto, di lui, era riducibile allo show, Kirk era anche fundraising, logistica, macchina organizzativa. Attorno al suo ecosistema, negli ultimi anni, si sono mossi decine di milioni di dollari e una capacità di mobilitazione che i Repubblicani hanno utilizzato come architrave in Stati chiave e cicli elettorali incandescenti.

Che lo si amasse o lo si detestasse, era un perno e questo spiega la reazione immediata della politica americana – a partire da Donald Trump – che lo ha celebrato come un combattente caduto, trasformando il lutto in un appello alla compattezza e, inevitabilmente, alla battaglia.

L’onda lunga in Europa e la miccia italiana

Il giorno dopo, il caso arriva in aula a Strasburgo, una richiesta di minuto di silenzio al Parlamento Europeo deflagra in una bagarre: la presidenza respinge per questioni procedurali, una parte dell’emiciclo protesta battendo sui banchi, un’altra applaude la decisione. La notizia attraversa a velocità i nostri feed e, com’era prevedibile, la discussione si sposta subito in Italia, dove più che discutere si tifa. Chi governa eleva Kirk a martire della libertà d’espressione; una parte dell’opposizione liquida il lutto come un totem ideologico degli avversari. Il punto, però, non è la contesa tra schieramenti. Il punto siamo noi, come comunità civile, davanti a una morte violenta.

Il nostro punto di vista: partire dall’umano, non dalle casacche

C’è una gerarchia delle cose che non dovrebbe mai capovolgersi. Quando un uomo viene assassinato per motivi politici, il primo movimento dovrebbe essere umano: il rispetto per la vita spezzata, per la famiglia, per i figli  e invece, nei nostri spazi pubblici, questo primo movimento è sempre più raro. Nel giro di poche ore, al posto del cordoglio appare il bilancino morale: “se era un odiatore, è normale che la violenza lo raggiunga”. No, non è normale è la resa della civiltà al tifo, è la porta che si socchiude all’idea – micidiale – che certe persone “se la siano cercata” e che dunque il proiettile, in fondo, sia un argomento politico. Non lo è. Non può esserlo. Non deve esserlo.

A questo si aggiunge un fenomeno che conosciamo troppo bene: le persone comuni trasformate in plotoni di copia-incolla, che ripetono i post dei leader come rosari digitali, promettendo indignazioni alternate a comando. Il risultato è un dibattito che non pensa, che non sente, che non riconosce l’umano nell’avversario. La misura della qualità democratica di un Paese si legge soprattutto qui: nella capacità di dire “mi oppongo alle tue idee e al tempo stesso piango la tua morte”. Non c’è niente di più “politico” di questa frase, perché è la base su cui si fonda il patto di convivenza.

Violenza politica: perché non è mai una strada (e lo sappiamo sulla nostra pelle)

Noi italiani non abbiamo bisogno di importare lezioni dall’America per sapere cosa diventa un Paese quando l’odio esce di casa armato. Lo abbiamo imparato negli anni Settanta e primi Ottanta, quando la politica decise che si poteva uccidere in nome di un’idea. Le Brigate Rosse, con rapimenti e omicidi – fino alla ferita che non si richiude del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro – ci hanno insegnato che la pistola “dialettica” distrugge prima di tutto chi la impugna e poi trascina tutti in un gorgo. Sul fronte opposto, i Nuclei Armati Rivoluzionari, con la stagione delle stragi e del terrorismo nero, hanno scritto la contro-faccia della stessa follia: la bomba come linguaggio. Non erano “i loro estremisti” contro “i nostri estremisti”: era la democrazia intera posta sotto ricatto, la società civile costretta a convivere con il sospetto, la paura, la retorica dell’emergenza. Chi ha memoria sa che la violenza politica è un acido: corrode le ragioni, cancella le sfumature, travolge gli innocenti.

Proprio perché abbiamo visto e patito, dovremmo essere i primi a respingere ogni indulgenza verso il “se l’è meritata” e ogni grammatica da derby. Quando una pallottola zittisce una voce, qualunque voce, il discorso pubblico perde un frammento di sé; e più frammenti perdi, più il discorso si riduce a urla. A quel punto non resta che la legge del più forte, non la forza della legge.

Il cortocircuito dei media e dei social: la fretta, le versioni, la polarizzazione

Le prime 24 ore dopo un fatto così sono sempre un campo minato. L’ansia di “avere la notizia” genera titoli contraddittori: fermo sì, fermo no, cecchino appostato, fuga tra i tetti, arma ritrovata, persona di interesse ricercata. È il ciclo informativo contemporaneo: si pubblica, si corregge, si aggiorna, mentre l’opinione pubblica – sfiancata – scorre e decide in pochi secondi da che parte stare. È accaduto anche qui: siti e reti americane hanno raccontato la sparatoria, la corsa in ospedale, la morte; poi l’FBI ha diffuso le foto di un sospetto, la cronaca si è assestata, i live blog hanno ripreso i fili in tempo reale. In parallelo, la politica ha reagito con dichiarazioni e simboli, fino a un proclama della Casa Bianca con le bandiere a mezz’asta. È un flusso che va compreso per quello che è: informazioni parziali che si compongono, non una licenza per scatenare giudizi definitivi in mezz’ora.

In Italia, questo flusso diventa rapidamente identità: il titolo che vediamo per primo stabilisce la postura che adotteremo per il resto della giornata. Così, invece di interrogare i fatti, interroghiamo la nostra curva. E il giornalismo, fiaccato dalla crisi di modello e dalla competizione a chi corre di più, finisce spesso per assecondare la narrazione binaria: o martire o mostro. Manca lo spazio per la terza via, quella seria, che chiede di separare l’analisi del personaggio – le sue idee, i suoi eccessi, i suoi errori – dal giudizio assoluto sul diritto alla vita.

Il dissenso è ossigeno, l’assassinio è il vuoto

Kirk divideva, e non è una bestemmia dirlo. Ha rappresentato un’idea dura e identitaria d’America, ha attaccato ciò che definiva “ideologia woke”, ha fatto della provocazione un motore di consenso. È legittimo, anzi doveroso, criticarne le posizioni quando le si ritiene sbagliate o pericolose, ma la politica, se vuole restare tale, deve tenere due livelli distinti: sul piano delle idee si picchia duro, sul piano dei mezzi si resta disarmati. È l’ABC di una democrazia adulta. L’alternativa – l’idea che “certe parole uccidono, dunque si risponde con le armi” – è un ritorno a ciò che abbiamo giurato di non volere mai più.

Per questo fa male vedere scivolare il discorso pubblico verso l’irrisione del morto, verso l’argomento-trappola “se avesse detto cose diverse, oggi sarebbe vivo”. Fa male, perché normalizza un pensiero tossico: l’idea che la violenza sia un’opzione a catalogo e se comincia a sembrarlo, vuol dire che abbiamo perso la prospettiva.

La politica italiana davanti allo specchio

In queste ore, nel nostro cortile, la partita si gioca tutta sull’istante. Invece di una riflessione – occorrerebbe parlarne, ricordando la nostra storia e pretendendo che la condanna della violenza sia senza asterischi – assistiamo alla solita divisione catechistica: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra, il tifo che detta la linea, i capipopolo digitali che dettano le parole d’ordine, e una marea di utenti che le replicano fedelmente. Chi è al governo brandisce l’omicidio come prova di una barbarie altrui; una parte dell’opposizione, invece di esprimere immediatamente cordoglio e poi eventualmente entrare nel merito politico, si irrigidisce e talvolta scivola nella battuta di cattivo gusto. A rimetterci, ancora una volta, è la qualità della nostra democrazia.

Non facciamoci illusioni: il modo in cui reagiamo a questi fatti racconta di noi molto più di quanto racconti dell’America. Se non riusciamo a dire che l’assassinio di un avversario è sempre un fatto orrendo, se non partiamo da lì, allora non stiamo difendendo la libertà d’espressione; stiamo solo difendendo la curva.

Cosa resta, domani

Di Charlie Kirk resteranno gli eventi affollati, i video delle sfide “Prove me wrong”, i numeri dei podcast e degli account, l’influenza su una generazione che si è riconosciuta in lui. Resteranno, dall’altra parte, le critiche – a volte feroci – di chi lo considerava un propagandista pericoloso. Ma soprattutto resterà un funerale e una famiglia. Il resto verrà dopo: l’inchiesta, l’arresto, il processo, i retroscena. È giusto volerli conoscere, è giusto pretendere verità. È sbagliato farne subito un pretesto per marcare il territorio.

La condanna della violenza politica non ha bisogno di asterischi, non chiede se prima hai messo like a qualcuno. È un principio che si afferma e basta.

Una proposta minima (e massima)

Ci sono momenti in cui non serve essere d’accordo su tutto per dire qualcosa insieme. Questo è uno di quelli. Possiamo discutere all’infinito di ciò che rappresentava Kirk, delle sue battaglie culturali, delle sue torsioni retoriche, ma prima c’è una frase che dovrebbe valere per chiunque: “nessuno merita di morire per ciò che pensa e dice”. È la base. Senza questa base, tutto il resto – le nostre inchieste, i nostri editoriali, i nostri talk show – è fumo.

Prendiamoci allora il lusso, raro, di non essere immediatamente furbi. Partiamo dal lutto, dal rispetto, dalla condanna senza ma e senza se. Poi, domani, torneremo pure a litigare su tutto il resto ma almeno lo faremo da vivi, e in una società che non ha deciso di cedere il microfono alle armi.

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