Milano, la morte di Cecilia De Astis e il silenzio che fa comodo a troppi

Milano, la morte di Cecilia De Astis e il silenzio che fa comodo a troppi

A volte, in Italia, per sapere la verità devi scavare più di quanto farebbe un minatore del dopoguerra. Questa mattina, per trovare un quotidiano che riportasse nero su bianco che i quattro ragazzini responsabili della morte di Cecilia De Astis erano di origine rom, bisognava arrivare fino alla decima pagina di Google, in fondo a quella parte di internet dove le notizie scomode vengono archiviate come vecchie pratiche da dimenticare. E non perché “rom” sia un insulto: è una nazionalità, un’identità culturale, un dato oggettivo di cronaca. Non diverso dal dire “italiano”, “francese” o “marocchino”. Ma nel Paese del buonismo ipocrita, certe parole diventano tabù se non servono a costruire la narrazione che fa comodo.

La tragedia in via Saponaro

Milano, 12 agosto 2025. In via Saponaro, quartiere Gratosoglio, una Citroën DS4 bianca con targa francese, rubata a un gruppo di turisti, piomba addosso a Cecilia De Astis, 71 anni, mentre attraversa sulle strisce. Una vita che si spegne in pochi secondi. Portata d’urgenza al Niguarda, muore poco dopo. A travolgerla non è stata una fatalità, ma la combinazione micidiale di incoscienza, illegalità e assenza totale di responsabilità.

A guidare quella macchina c’era un tredicenne. Accanto a lui, altri tre minori: due maschi di dodici e undici anni, e una ragazzina di undici. Tutti nati in Italia, figli di famiglie nomadi di origine bosniaca, residenti in un campo rom di via Selvanesco. In un Paese che confonde cittadinanza con comportamento, si è preferito dire “nati in Italia” omettendo il resto, come se l’informazione sulle origini fosse una macchia di vergogna da cancellare.

L’indagine lampo

Non è stato il pentimento a fermarli, ma un dettaglio banale: tre di loro indossavano la stessa maglietta, immortalata dalle telecamere di sorveglianza. La polizia ha rintracciato il negozio in cui era stata acquistata, risalendo così all’identità dei quattro. Li hanno trovati all’alba, nel campo di via Selvanesco. Lì, dove la legge è spesso percepita come un fastidio temporaneo e le regole della convivenza civile un concetto astratto.

Giuridicamente, non possono andare in carcere: in Italia, sotto i 14 anni, si è automaticamente incapaci di intendere e di volere. La Procura dei Minori sta valutando il da farsi: comunità, allontanamento dai genitori, provvedimenti educativi. Ma sappiamo bene come vanno queste storie: comunità da cui si scappa, famiglie che si dichiarano nullatenenti per evitare qualsiasi risarcimento, e in breve tempo il ritorno alla vita di prima.

Il dolore di una comunità

Cecilia De Astis non era una “signora qualunque”. Ex operaia tessile, volontaria alla mensa dei “Fratelli di San Francesco”, donna conosciuta e rispettata. Una persona che si spendeva per gli altri e che meritava di invecchiare in pace, non di finire sull’asfalto per mano di quattro ragazzini in cerca di adrenalina. Il dolore della sua famiglia e dei suoi amici è quello di una ferita che non si rimargina, aggravata dal sospetto – fondato – che giustizia piena non ci sarà mai.

La politica che strumentalizza e minimizza

Qui arriva la parte che più disgusta. Da un lato, la destra – con Salvini in prima fila – che cavalca la tragedia per riproporre il suo repertorio logoro contro i rom, come se bastasse un comizio per risolvere decenni di problemi di legalità e integrazione mai affrontati seriamente. Dall’altro, certa sinistra che minimizza, che invita a “contestualizzare”, che si rifugia nella formula “sono ragazzi” come se l’età bastasse a cancellare la gravità delle azioni.

Il sindaco Sala ha parlato di vergognose speculazioni politiche, ed è vero. Ma dimentica che minimizzare è altrettanto vergognoso. Questi quattro non sono “monelli” da commedia italiana, ma criminali in miniatura, consapevoli di rubare un’auto, consapevoli di fuggire e ben capaci di capire che lanciarsi a tutta velocità in città può uccidere. Non puoi essere lucido per organizzare un furto e improvvisamente ingenuo quando il tuo comportamento provoca una morte.

L’ipocrisia del dibattito pubblico

In questa vicenda, come in tante altre, il dibattito pubblico è falsato dall’ipocrisia. Se i responsabili fossero stati italiani, molti degli stessi che oggi gridano allo scandalo avrebbero minimizzato. E viceversa, chi oggi difende a prescindere i ragazzini per paura di passare per razzista, se la vittima fosse stata la propria madre o nonna, chiederebbe pene esemplari. È la prova che in Italia non abbiamo un problema solo di sicurezza, ma di coerenza e onestà intellettuale.

Il nodo dell’imputabilità

La legge che esclude la responsabilità penale sotto i 14 anni nasce per proteggere i minori da condanne sproporzionate. In teoria è giusta, in pratica è usata come scudo da famiglie e contesti dove l’illegalità è normalità. Ragazzini che sanno di essere intoccabili diventano più pericolosi di tanti adulti. E qui c’è un vuoto enorme che la politica non vuole colmare: modificare la legge per casi di crimini gravi, prevedendo percorsi obbligatori e realmente restrittivi. Non per punire, ma per proteggere la società.

Il diritto di cronaca e il tabù dell’origine

Raccontare che i responsabili sono di origine rom non è discriminazione, è diritto di cronaca. È un’informazione che aiuta a capire il contesto, così come dire “italiano”, “francese” o “marocchino” serve a descrivere un fatto nella sua completezza. Non è un giudizio morale, è un dato. Chi vuole cancellarlo non difende le minoranze, ma sottrae al lettore il diritto di sapere. E questo, in una democrazia, è un crimine culturale.

La tragedia nella tragedia

Alla fine, ci troviamo davanti a un copione già visto: una vita spezzata, responsabili che resteranno impuniti nei fatti, famiglie che non pagheranno un euro, politica che si divide tra chi urla e chi nega. In mezzo, l’Italia reale, quella che attraversa la strada guardandosi alle spalle perché sa che qui il confine tra normalità e tragedia è sempre più sottile.

Cecilia De Astis è morta per colpa di quattro ragazzini che nessuno ha voluto fermare prima. Non importa da dove vengano, ma importa eccome capire perché erano liberi di fare quello che hanno fatto, senza che nessuno si chiedesse dove fossero, cosa facessero, chi li stesse educando. E se questo significa guardare in faccia realtà scomode, allora bisogna farlo. Perché l’omertà non è solo quella di chi tace per paura della mafia: è anche quella di un Paese che sceglie di non vedere per non mettere in discussione le proprie certezze ideologiche.

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