M. Il figlio del secolo: una serie tv sopravvalutata che alimenta cliché e paure di cartapesta

M. Il figlio del secolo: una serie tv sopravvalutata che alimenta cliché e paure di cartapesta

La recente serie televisiva M. Il figlio del secolo, ispirata al romanzo di Antonio Scurati e trasmessa su Sky, sta suscitando parecchio clamore mediatico. Da un lato ci sono spettatori che, sui social, sembrano vivere in preda all’ansia per il solo fatto di guardare la fiction, ripetendo allo sfinimento la frase fatta “La guardo a piccole dosi perché quei fatti fanno molto male”. Dall’altro, giornalisti e opinionisti come Marco Travaglio l’hanno stroncata duramente, sottolineando i limiti di un prodotto che di storico, in fondo, conserva poco. Eppure, il vero problema non è tanto la scarsa riuscita della serie, quanto l’enfasi spropositata che si è creata attorno a un racconto televisivo parziale, costruito attorno a un periodo complesso come il ventennio fascista.

Una superficialità che non convince

L’intenzione di raccontare la genesi e la figura di Benito Mussolini, con tutte le sue ambiguità e implicazioni storiche, era sulla carta interessante. Tuttavia, M. Il figlio del secolo – in linea con molto intrattenimento contemporaneo – scivola in una narrazione che manca di rigore e profondità. Le scelte registiche e di scrittura puntano più sull’effetto scenico e sul pathos televisivo, soffermandosi su episodi studiati per “colpire” lo spettatore, piuttosto che su una vera analisi storica del fenomeno fascista. Il risultato è un racconto a tratti confuso, che oscilla tra momenti di pura fiction e altri di documentarismo semplificato, lasciando lo spettatore disorientato e con poche reali chiavi di lettura.

L’effetto “ansia” e la frase fatta “Lo guardo a piccole dosi”

Quel che colpisce, più della serie stessa, è la reazione di una parte di pubblico che sui social dichiara di non riuscire a seguirne gli episodi se non “a piccole dosi, perché quei fatti fanno molto male”. Certo, la storia del fascismo è un capitolo drammatico e cupo della nostra storia: persecuzioni, violenze, privazione delle libertà. Ma è davvero sufficiente una fiction (che, per sua natura, filtra la realtà tramite un racconto romanzato) a provocare tanto turbamento?

Il sospetto è che, dietro tale enfatizzazione del “male che fa” guardare questa serie, si celi una scarsa conoscenza del periodo storico e forse anche un limitato confronto con rappresentazioni ben più crude dell’orrore bellico e totalitario. Basti pensare a capolavori cinematografici come Schindler’s List, in cui l’atrocità dell’Olocausto – mostrata con un realismo impietoso – imprime nello spettatore un vero senso di sgomento. O ancora, a film come La sottile linea rossa o Salvate il soldato Ryan, che raccontano il secondo conflitto mondiale in modo molto più esplicito, eppure difficilmente vengono citati da chi, oggi, fatica a reggere la visione di un racconto sulla marcia su Roma o sui primi anni di regime.

Il vuoto di conoscenza storica

Il fenomeno del “guardare a piccole dosi” rivelerebbe soprattutto un’incapacità di distinguere tra la fiction televisiva (costruita secondo logiche di ascolto, copione e messa in scena) e la portata enorme della realtà storica, che è molto più complessa e dolorosa di quanto una serie tv possa mostrare.

Questa difficoltà di contestualizzazione non è necessariamente colpa degli autori o degli interpreti di M. Il figlio del secolo, ma di un vuoto di formazione e studio che, nelle fasce di età 20-30 anni, a volte si manifesta con allarmante evidenza. Se si conoscesse meglio la storia – non solo dai libri, ma anche da testimonianze, documentari e pellicole di qualità – non ci si stupirebbe di certo per qualche scena dal vago sapore totalitario: si comprenderebbe che l’orrore del fascismo non si esaurisce in un paio di passaggi televisivi, ma sta nelle politiche liberticide, negli omicidi politici, nel razzismo di Stato e, in ultima analisi, nell’avvio di una guerra dalle conseguenze catastrofiche.

La critica di Marco Travaglio e la qualità discutibile

Marco Travaglio, nella sua stroncatura, ha puntato il dito contro un prodotto a suo parere confuso e debole dal punto di vista storiografico, evidenziando come la stessa qualità tecnica (dal montaggio alle scelte di regia) risulti disomogenea. Il limite più evidente è la riduzione di una materia così complessa (la nascita di una dittatura) a un racconto televisivo che non riesce a far emergere la vera brutalità del regime e le sue conseguenze sulla società italiana, andando invece a puntare su momenti drammaturgici “a effetto” ma poco sostanziati.

Non stupisce, quindi, che la serie possa suscitare un’impressione superficiale, quasi da “documentario iper-semplificato”, in cui i personaggi sembrano muoversi su un binario già scritto e le vicende storiche diventano un contorno funzionale al pathos narrativo. La conseguenza è un dibattito sterile, in cui l’emotività (il “mi fa male guardarlo”) prevale sull’analisi critica di ciò che effettivamente è stato il ventennio fascista.

Un progetto ambizioso

M. Il figlio del secolo è un esempio di come anche i progetti più ambiziosi possano scadere in una rappresentazione monca, incapace di restituire la complessità dei fatti. Da un lato, la bocciatura di giornalisti e opinionisti come Marco Travaglio è motivata dalla scarsa solidità del prodotto; dall’altro, la reazione esagerata di alcuni telespettatori, che proclamano di guardare la serie “a piccole dosi perché fa male”, tradisce una limitata conoscenza storica e un atteggiamento che rischia di ridurre eventi drammatici e veri orrori a un mero trauma da fiction.

Se davvero si vuole capire il fascismo e trarne un monito per il presente, sarebbe più utile affrontare le fonti storiche, i documentari, le testimonianze dirette e film capaci di rappresentare la brutalità e l’impatto sociale dei regimi totalitari. Rispetto a tutto ciò, M. Il figlio del secolo appare un mero esercizio di stile, forse adatto a una serata di intrattenimento, ma ben poco efficace nell’offrire uno sguardo critico sul passato e, soprattutto, nel formare una coscienza storica lucida e consapevole.

L’approfondimento: la situazione italiana e il vuoto della sinistra

Al di là dei limiti intrinseci di M. Il figlio del secolo, la reazione del pubblico e il dibattito politico-mediatico che ne è scaturito mettono in luce un quadro più ampio, che riguarda in particolare la sinistra italiana. Proprio quella sinistra che, storicamente, ha sempre posto al centro della propria identità l’antifascismo e il richiamo alla memoria collettiva, sembra oggi incapace di offrire soluzioni reali, alternative chiare o un discorso politico incisivo. Si limita, troppo spesso, a stigmatizzare e additare chi non si allinea, finendo così per rimanere imprigionata in una sterile ricerca del consenso interno.

Il fenomeno “Lo guardo a piccole dosi”

Da una parte, è evidente come la scarsa conoscenza storica generi reazioni sproporzionate nei confronti di una semplice fiction. Se una serie tv viene percepita come così “traumatica” da richiedere la visione a piccole dosi, ciò segnala la totale mancanza di dimestichezza con rappresentazioni ben più forti degli orrori del Novecento. Non serve neppure scomodare Schindler’s List o altri film sulla Seconda guerra mondiale: basterebbe un minimo di coscienza storica per contestualizzare il fascismo e rendersi conto che una fiction televisiva, per quanto ben costruita, non può realmente restituire la crudezza della dittatura e delle sue conseguenze.

La sinistra e il pensiero unico

Se da un lato la reazione emotiva del pubblico sui social fa sorridere (o preoccupare, a seconda dei punti di vista), dall’altro emerge una sinistra che, invece di spiegare e approfondire, spesso si rifugia nel pensiero unico. Proprio l’antifascismo, valore cardine e irrinunciabile, rischia di diventare una bandiera sventolata in maniera rituale: chiunque non ne segua pedissequamente i dettami, fosse anche un semplice dubbio sulla linea dominante, viene etichettato come “retrogrado”, “populista” o addirittura “fascista”.

In questo modo, l’antifascismo si trasforma da slancio ideale e culturale in uno strumento di delegittimazione dell’avversario. Un meccanismo che produce frammentazione e allontana chiunque desideri un confronto franco sulle questioni centrali del presente (lavoro, diritti civili, ambiente, politica estera, ecc.).

In ultima analisi, dunque, il caso di M. Il figlio del secolo non è che uno specchio di una condizione più vasta: un paese dove il dibattito è polarizzato fra reazioni emotive, “traumi da fiction” e assenza di una visione politica coraggiosa. Se si vuole davvero evitare il rischio di nuovi autoritarismi, l’unica strada rimane quella dello studio, della memoria storica ben radicata e di un confronto serio e propositivo. Tutto il resto è solo rumore di fondo.

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