L’ipocrisia al potere: l’assessora contro il cyberbullismo che diventa hater

L’ipocrisia al potere: l’assessora contro il cyberbullismo che diventa hater

C’è un elemento di fastidiosa, insopportabile ipocrisia in tutta questa vicenda. Alessandra Durante, assessora del Comune di Lecco con deleghe alla Famiglia, ai Giovani e alla Comunicazione, ha costruito la propria immagine pubblica come paladina della lotta al cyberbullismo. È intervenuta in scuole, convegni, conferenze, proponendo “patti educativi digitali” per proteggere i ragazzi dagli abusi online. Eppure, sotto la maschera rassicurante dell’istituzione, era proprio lei — con il nick “Anonimo 582” — a insultare e a lanciare fango in rete, travestita da hater qualunque.

Un comportamento meschino, se non addirittura crudele, perché toglie credibilità a ogni battaglia di civiltà e solidarietà che dovrebbe essere condotta per davvero contro il cyberbullismo. Chi subisce odio digitale, spesso ragazzini fragili o persone in difficoltà, viene così doppiamente tradito: prima dalla violenza in rete, poi dall’ipocrisia di chi si finge difensore ma in realtà alimenta lo stesso schifo.

La storia di un’assessora con la doppia faccia

La cronaca è nota. Un cittadino aveva segnalato la pavimentazione sconnessa in largo Montenero, a Lecco, e aveva espresso critiche legittime verso l’amministrazione. Fin qui, nulla di strano: la democrazia si regge proprio sul diritto di parola e di critica. Ma, evidentemente, questo principio non è piaciuto all’assessora Durante, che ha reagito con violenza verbale, ricorrendo a insulti e attacchi personali per difendere l’operato del Comune.

Non contenta, lo ha fatto con un profilo anonimo, “Anonimo 582”, convinta — con la stessa superficialità di tanti leoni da tastiera — di poterla passare liscia. E invece è stata smascherata dagli amministratori del gruppo Facebook che hanno tracciato l’identità digitale. È emersa la verità: dietro quella voce d’odio c’era proprio lei, la stessa che spiegava ai ragazzini come non odiare in rete.

Uno scenario da teatro dell’assurdo, se non fosse tutto tremendamente reale.

Cyberbullismo: non è solo una parola da convegno

È troppo facile parlare di cyberbullismo dall’alto di un palco, con le slides colorate, i pedagogisti in prima fila e il microfono in mano. È molto più difficile capire davvero che cosa significhi subire attacchi in rete.

Chi è vittima di cyberbullismo sperimenta una sensazione di annientamento, di vergogna, di isolamento. Le parole diventano pietre, l’insulto si trasforma in una ferita psicologica che può devastare. Persone giovani, ma anche adulti fragili, finiscono stritolati in questo meccanismo di disprezzo, derisione, umiliazione pubblica.

Quando a fare la hater è addirittura un’amministratrice pubblica, la ferita si allarga ancora di più. Perché manda un messaggio terribile: anche chi dovrebbe proteggerti, in fondo, può divertirsi a vomitarti addosso la sua rabbia.

E allora a cosa servono i “patti educativi digitali”? A cosa servono le conferenze, i laboratori nelle scuole, i progetti sul rispetto in rete? La credibilità istituzionale crolla nel momento stesso in cui viene svelato il doppio volto di chi predica bene e razzola male.

La scusa non basta

Alessandra Durante ha pubblicato un messaggio di scuse. Una toppa peggiore del buco, verrebbe da dire. Ha parlato di un comportamento «prepotente e maleducato», ammettendo di essere scesa sul personale, in forma anonima, e di aver sbagliato.

Peccato che non si tratti di una scivolata qualsiasi. Qui non parliamo di un commento impulsivo scritto in una sera di nervosismo, ma di una strategia deliberata per umiliare un cittadino, per difendere a spada tratta un’amministrazione, usando la violenza verbale come arma.

Chiedere scusa è doveroso, certo. Ma non può bastare a sanare un comportamento che mina la fiducia della cittadinanza. E soprattutto offende tutte le vittime di cyberbullismo che, nella vita reale, spesso non possono permettersi un semplice “mi dispiace” come riparazione.

La responsabilità di chi amministra

Chi occupa un ruolo pubblico ha una responsabilità diversa dagli altri. La responsabilità di dare il buon esempio, di moderare i toni, di saper ascoltare anche la critica più aspra senza reagire con l’insulto.

Un assessore non è un utente qualsiasi. Non può, non deve, abbassarsi al livello di chi semina odio, e tantomeno alimentare lui stesso la catena tossica della rabbia digitale. Farlo significa legittimare comportamenti di bullismo online che in questi anni hanno rovinato vite, famiglie, percorsi scolastici e lavorativi.

Il messaggio che arriva da questo caso è devastante: se perfino l’assessora ai giovani, alla famiglia e alla comunicazione può diventare una hater, allora chiunque si sentirà autorizzato a insultare, offendere, minacciare.

La coerenza è un dovere

La politica italiana soffre, da tempo, di un male profondo: la mancanza di coerenza. Non importa di quale colore sia la giunta, non importa l’etichetta di partito. Quello che conta è la credibilità.

Non puoi andare nelle scuole a spiegare che l’odio digitale è un problema grave, per poi contribuire tu stessa a generarlo. Non puoi invocare educazione e rispetto, per poi scagliarti come un ariete contro un normale cittadino che esprime una critica.

L’esempio è la prima forma di educazione. E qui, di esempi, non se ne sono visti.

Il danno ai veri progetti di prevenzione

Chi davvero lavora contro il cyberbullismo oggi è più solo. Questa vicenda rischia di gettare fango su chi, con fatica e dedizione, organizza laboratori, campagne di sensibilizzazione, percorsi di ascolto per le vittime.

Quando succedono casi come questo, l’opinione pubblica si convince che tutte le battaglie siano solo retorica di facciata, passerelle buone per i giornali. E invece no: dietro molti progetti contro il cyberbullismo ci sono volontari, educatori, psicologi che lottano ogni giorno per aiutare i ragazzi a sentirsi meno soli.

Alessandra Durante, con la sua leggerezza arrogante, ha sputato in faccia a questo mondo.

Dimettersi è il minimo

Il sindaco di Lecco, Mauro Gattinoni, ha ricevuto le dimissioni dell’assessora e ha detto che ci rifletterà. Non c’è nulla da riflettere, onestamente. Dimettersi è il minimo, un atto di responsabilità verso una comunità tradita.

Non si può amministrare una città e, nello stesso tempo, trasformarsi in una stalker digitale. La misura è colma, ed è giusto che chi sbaglia in modo così grave si faccia da parte.

Le vittime non hanno un “anonimo”

Infine, un pensiero per chi davvero subisce cyberbullismo. Persone che non hanno la protezione di un incarico pubblico, che non hanno la possibilità di giustificarsi in consiglio comunale o di chiedere scusa sui social.

Chi subisce minacce, insulti, persecuzioni online spesso non sa nemmeno a chi rivolgersi. E a volte, nella solitudine e nella disperazione, arriva a gesti estremi.

Questa storia ci insegna che il cyberbullismo non è un argomento “di moda” da esibire in campagna elettorale o sui palchi delle scuole. È un dramma sociale che merita rispetto, coerenza e serietà. Chi non ha queste doti, farebbe bene a tacere.

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