In un’Italia che ogni giorno si riempie la bocca con parole come “dignità”, “inclusione”, “cura dei più deboli”, ci sono luoghi dove la dignità viene pestata a sangue, l’inclusione diventa segregazione e la cura si trasforma in un alibi per infliggere dolore. È successo a Pachino, nel profondo Sud della Sicilia, ma sarebbe un errore grossolano relegare questo orrore a una questione geografica, perché la verità è che fatti come questi non appartengono a un angolo remoto della mappa, bensì a un’intera cultura che ha imparato a nascondere sotto il tappeto la parte più fragile della propria umanità, sperando che resti in silenzio, possibilmente sedata.
A Pachino, tre comunità alloggio per anziani e disabili psichici sono state sequestrate dai Carabinieri della Compagnia di Noto e dal NAS di Ragusa. L’indagine, avviata dopo segnalazioni da parte di alcuni cittadini, ha portato all’esecuzione di ben sedici misure cautelari nei confronti di titolari, operatori e dipendenti. Le accuse sono agghiaccianti e non lasciano spazio ad ambiguità: maltrattamenti, sequestro di persona, violenza fisica e psicologica, gestione sanitaria abusiva e somministrazione di farmaci da parte di personale non qualificato. In altre parole, quello che la legge riconosce come reato, qui era diventato prassi quotidiana, una forma di “routine” fondata sull’indifferenza e sul sopruso.
Quello che è emerso dalle intercettazioni ambientali e dalle testimonianze è un sistema strutturato, pervasivo e spietato, in cui i pazienti venivano trattati non solo con disprezzo, ma come oggetti da controllare, sedare, immobilizzare. Una giovane donna con problemi psichiatrici è stata trovata legata al letto, costretta a supplicare per poter andare in bagno, ricevendo come risposta nuovi insulti e punizioni. Schiaffi, spinte, urla, umiliazioni verbali continue: tutto documentato, tutto sistematico, tutto organizzato da chi avrebbe dovuto garantire assistenza e sicurezza.
L’orrore comincia dal silenzio
Ma il vero mostro, quello che permette che queste situazioni esistano e si ripetano, non si nasconde dietro la maschera dell’aguzzino, bensì nel silenzio di chi sapeva e ha deciso di non intervenire. Nessuno pensi che queste violenze siano avvenute all’insaputa del personale, o che i titolari fossero ignari delle pratiche che avvenivano all’interno delle loro strutture. La verità è che si trattava di comportamenti radicati, frequenti, conosciuti e spesso addirittura autorizzati da chi aveva potere decisionale.
Non si può lavorare per mesi, o forse anni, all’interno di un ambiente in cui una paziente viene legata ogni giorno al letto senza un motivo terapeutico reale, in cui le urla si sentono dai corridoi, in cui le somministrazioni di farmaci vengono fatte da chi non ha alcun titolo, e dire poi che non si sapeva nulla. È un insulto alla logica, oltre che alla giustizia.
E se è vero che le forze dell’ordine hanno fatto il loro lavoro con rigore e intelligenza investigativa, dobbiamo domandarci dove fossero gli altri: dove fossero le istituzioni locali, dove fossero gli assistenti sociali, dove fossero le ASL, dove fossero i familiari dei degenti e – soprattutto – dove fosse lo Stato.
Quando la fragilità non fa rumore
Uno degli aspetti più inquietanti di tutta questa vicenda è la constatazione che tutto è potuto avvenire grazie all’invisibilità delle vittime. Le persone disabili, soprattutto se con problemi psichiatrici, non hanno quasi mai voce. Gli anziani più fragili, quelli non autosufficienti, vengono spesso abbandonati a se stessi, affidati a strutture con la speranza che “ci pensino loro”.
Viviamo in un Paese in cui, se una donna subisce una violenza in un centro città, l’indignazione pubblica è immediata e rumorosa, ma se una persona disabile viene insultata, legata e privata della dignità dentro una struttura convenzionata con lo Stato, il massimo che possiamo aspettarci è un trafiletto in cronaca e qualche post indignato sui social, che dura ventiquattr’ore.
È proprio su questo silenzio che fiorisce il mercato del dolore: un’industria che lucra sulla sofferenza, che massimizza il profitto minimizzando l’empatia, che preferisce clienti muti e docili, magari sedati, piuttosto che degenti attivi e presenti.
Cooperative di facciata, profitto come fine
Altro che vocazione assistenziale, altro che spirito di servizio. Queste strutture erano aziende nel senso peggiore del termine. La priorità non era la salute dei pazienti, ma il margine di guadagno. Si assumeva personale senza qualifiche, si lesinava sul cibo, si ignoravano le esigenze basilari degli ospiti, perché tutto ciò che poteva essere risparmiato diventava guadagno.
Parliamo di cooperative sociali che dovrebbero rispondere a principi etici, ma che nella realtà operano come qualunque società privata affamata di denaro, solo che al posto dei clienti hanno esseri umani incapaci di difendersi, e al posto dei bilanci trasparenti hanno reti opache di responsabilità, complicità e omertà.
La gestione “sanitaria” era a tutti gli effetti una truffa. Venivano somministrati farmaci ad alta invasività da parte di persone non abilitate, mettendo a rischio la vita stessa dei degenti. Chi doveva ricevere cure veniva invece trasformato in un oggetto da narcotizzare, immobilizzare, dimenticare.
Lo Stato? Assente e lento
Qui non si tratta solo di punire i colpevoli – cosa che ovviamente è necessaria – ma di denunciare un’intera impalcatura normativa e culturale che rende possibile tutto questo. Perché finché le leggi non obbligheranno a controlli frequenti, trasparenti, a sorpresa, e finché chi dirige queste strutture potrà operare per anni senza alcuna ispezione significativa, sarà solo questione di tempo prima che un nuovo Pachino torni a riempire le cronache.
È scandaloso che ancora oggi, nel 2025, non esista un sistema digitale unico per la tracciabilità delle terapie somministrate, dei titoli di chi opera, delle condizioni sanitarie degli ospiti. È assurdo che non ci siano videocamere obbligatorie nelle aree comuni, accessibili solo alle famiglie e agli enti preposti, per garantire la trasparenza e la sicurezza.
Ma forse non è un caso. Forse a qualcuno conviene che tutto resti così: opaco, delegato, dimenticabile. Perché i disabili non fanno rumore, e gli anziani che non hanno più voce non creano scandali.
La responsabilità è anche nostra
A questo punto è giusto chiedersi: e noi? Noi che leggiamo, che commentiamo, che ci indigniamo? Che ruolo abbiamo avuto in tutto questo?
Siamo una società che accetta, tollera, normalizza la delega della cura. Mettiamo i nostri genitori in strutture perché “non ce la facciamo più”, lasciamo che i disabili vengano seguiti da estranei perché “così è meglio per tutti”, e poi non controlliamo, non visitiamo, non chiediamo. Ci accontentiamo del silenzio, lo interpretiamo come segno che va tutto bene. Ma il silenzio, in questi casi, è solo la maschera della sofferenza.
Ogni volta che scegliamo di non vedere, che diciamo “non mi compete”, che rifiutiamo di approfondire, stiamo alimentando questo sistema. Ogni volta che ci fidiamo ciecamente di chi ci promette di “prendersi cura” senza mai chiederci come lo fa, stiamo consegnando esseri umani fragili nelle mani sbagliate.
L’orrore di Pachino è un simbolo nazionale
Non commettiamo l’errore di ridurre tutto a un fatto locale. Pachino è solo la punta dell’iceberg, l’esplosione pubblica di un problema nazionale. Non c’è regione, non c’è provincia che sia immune da questa deriva. Per ogni comunità alloggio che viene chiusa, ce ne sono altre dieci che continuano a operare con le stesse logiche, protette dal silenzio e dalla complicità.
Se davvero vogliamo cambiare le cose, serve una rivoluzione culturale. Dobbiamo rimettere al centro la dignità della persona, pretendere leggi nuove, più dure, più efficaci, e soprattutto avere il coraggio di denunciare, senza paura, ogni segnale di abuso, ogni sussurro di violenza, ogni dubbio su ciò che accade dietro le porte chiuse.
Quante altre Pachino ci servono?
E allora la domanda è questa, quella che nessuno ha il coraggio di fare in Parlamento, quella che nessun ministro ha mai pronunciato con onestà: quante altre comunità alloggio devono essere chiuse? Quante altre denunce devono partire dai cittadini invece che dalle istituzioni? Quanti altri disabili devono supplicare legati a un letto prima che si decida di cambiare davvero le regole?
Finché continueremo a restare in silenzio, a confidare nella fortuna, a sperare che “a noi non succeda”, saremo solo comparse in un Paese che ha deciso di sacrificare la sua coscienza sull’altare dell’indifferenza.