Succede tutto in pochi secondi, come spesso accade oggi. Una foto scattata a Lucca Comics & Games 2025, fra un “piacere!” e un “posso farne una?”, due mondi che s’incontrano per caso: Zerocalcare, il fumettista romano che da anni racconta con ironia e impegno le contraddizioni del presente, e Hideo Kojima, il visionario del videogioco globale.
Un momento breve, naturale, quasi tenero nella sua spontaneità: Kojima con in mano l’edizione giapponese di Kobane Calling, un sorriso di circostanza e un selfie da condividere. Poi, nel giro di poche ore, la foto diventa virale, fa il giro del mondo, arriva sulle bacheche di ogni continente e, come ogni cosa che brucia troppo in fretta, scompare all’improvviso.
Il giorno dopo, la foto sparisce dai profili ufficiali di Kojima e poco dopo arriva un comunicato ufficiale di Kojima Productions, asciutto, tecnico, dal tono quasi legale, per precisare che non c’è alcun legame personale o professionale tra i due, che la foto è stata scattata in modo rapido e senza alcuna intenzione politica o promozionale. In altre parole: “non era un messaggio, era solo una foto”.
Solo che, nel 2025, “solo una foto” non esiste più.
Quando la cultura pop incontra la geopolitica
Il detonatore del caso sta tutto in quell’oggetto tra le mani di Kojima: Kobane Calling., un libro che parla di resistenza curda, guerra, identità e libertà. Un fumetto che è anche reportage, testimonianza e denuncia.
In un’epoca dove le immagini vengono lette come simboli, bastava quella copertina per trasformare uno scatto innocente in un caso diplomatico. E così è stato. Alcune comunità online, in particolare quelle legate al mondo turco, hanno interpretato la foto come un segnale politico, da lì, la valanga: commenti, articoli, titoli, fino a costringere lo studio giapponese a un passo indietro.
La vicenda ha mostrato quanto sottile sia il confine tra cultura pop e politica, un autore come Zerocalcare, che non ha mai nascosto la sua sensibilità per temi sociali e politici, porta con sé un bagaglio di significati che va oltre la pagina disegnata. E quando questo bagaglio entra nell’universo ipercontrollato del marketing giapponese, l’impatto è inevitabile.
Il paradosso è che nessuno dei due protagonisti voleva l’effetto ottenuto. Ma il linguaggio della rete non si basa sull’intenzione: si basa sulla percezione.
Il Giappone e l’arte della correttezza formale
Per capire davvero perché Kojima Productions ha reagito così, bisogna ricordare che in Giappone la comunicazione pubblica è una questione di reputazione, non di libertà espressiva.
Ogni gesto pubblico di una figura come Hideo Kojima, venerato, osservato, e in molti sensi quasi “istituzionale”, è letto come un atto simbolico. La cultura giapponese si fonda sulla forma, sull’armonia, sul rispetto dei ruoli, l’errore non si gestisce: si elimina, in silenzio. È per questo che la foto è stata rimossa, senza drammi, senza proclami.
Un gesto di autoprotezione e di disciplina comunicativa, non un atto politico.
Ma questo, in Italia, non lo ha capito quasi nessuno. Perché da noi si è convinti che il mondo funzioni secondo le stesse regole di Twitter e dei talk show serali. Così, quando Kojima ha scelto il silenzio e la prudenza, si è scatenato il solito teatrino delle interpretazioni: “ha ceduto alle pressioni”, “ha sconfessato l’artista”, “ha fatto marcia indietro”. In realtà, ha semplicemente fatto quello che ogni azienda giapponese fa quando c’è il rischio di una controversia: tagliare il problema prima che si allarghi.
Il gioco al massacro mediatico all’italiana
E qui entra in scena l’Italia, con la sua capacità innata di trasformare ogni episodio in un’arena ideologica. In poche ore, l’incontro fra un fumettista e un game designer è diventato terreno di battaglia politica. Alcuni commentatori, e non è difficile immaginare da quale area, hanno sfruttato la vicenda per attaccare la “cultura impegnata”, accusando Zerocalcare di militanza mascherata e di usare il fumetto come strumento di propaganda. È il copione di sempre: prendere un simbolo, svuotarlo del contesto e usarlo come ariete contro chi lo rappresenta.
Ma, come da perfetta tradizione nostrana, anche l’altra parte non ha perso tempo. Nelle stesse ore, sui social, sono comparsi centinaia di post entusiasti, spesso animati da un tono da tifoseria, che leggevano l’episodio come una sorta di “investitura morale”: la prova che persino una figura internazionale come Kojima “riconosceva” il valore di un certo modo di pensare e di stare al mondo.
In pratica, mentre da un lato si gridava allo scandalo, dall’altro si celebrava l’eroe pop che aveva portato la causa dentro la cultura globale.
Il risultato? Un doppio cortocircuito perfetto, dove entrambi gli schieramenti hanno piegato l’immagine alle proprie esigenze narrative. Uno per attaccare, l’altro per rivendicare. In mezzo, la realtà: un incontro di pochi secondi, una foto fatta in buona fede e un autore che, come spesso accade, si è ritrovato stritolato tra le logiche del consenso e del discredito.
Un esempio cristallino di come, in Italia, la cultura venga usata come campo di battaglia, e non come spazio di confronto. Qui non importa capire cosa sia davvero successo: importa usarlo, incorniciarlo, e soprattutto schierarsi. Perché la neutralità, oggi, è diventata il peccato più grave.
La sindrome di Ryan Holiday (mal copiata)
Negli Stati Uniti, c’è chi ha trasformato questo meccanismo in un metodo scientifico. Ryan Holiday, nel suo libro Trust Me, I’m Lying, spiegava come si può manipolare il ciclo delle notizie creando scandali artificiali per ottenere visibilità. Ma là c’è un ecosistema mediatico che, per quanto cinico, funziona con regole riconosciute: si crea, si amplifica, si consuma, si archivia.
In Italia invece no. Qui si copia la forma ma non la sostanza, si imita la provocazione, ma senza capirne l’architettura. E così si finisce per bruciare reputazioni reali pur di ottenere un pomeriggio di traffico.
Nel caso Zerocalcare–Kojima, qualcuno ha visto l’occasione perfetta per infilare il nome dell’autore romano in una polemica globale. Solo che a differenza di Holiday, che sapeva esattamente cosa stava facendo, da noi la strategia è cieca, impulsiva e profondamente provinciale. Si agita la bandiera dell’indignazione senza comprendere i codici culturali in gioco. E il risultato è sempre lo stesso: rumore, semplificazione, distorsione.
Un comunicato freddo che diventa fraintendimento
Il comunicato di Kojima Productions, nella sua durezza formale, è stato letto come una presa di distanza quasi ostile. Ma chi conosce il linguaggio aziendale nipponico sa che quello è il registro standard: asciutto, preciso, protettivo.
Il punto non è se Kojima volesse “scaricare” Zerocalcare, ma piuttosto evitare che il caso si trasformasse in un boomerang mediatico per un’azienda che lavora su scala globale.
L’errore, semmai, è stato di chi ha voluto interpretare quella nota secondo la nostra grammatica emozionale, come se ogni frase fosse un giudizio morale.
Non è un caso che la reazione italiana sia stata divisa in due fronti: da un lato chi ha gridato alla censura, dall’altro chi ha applaudito alla “neutralità del brand”.
La verità, come sempre, stava nel mezzo: un semplice atto di gestione del rischio che solo noi abbiamo deciso di trasformare in dramma identitario.
Il paradosso della rimozione
La cancellazione della foto ha avuto l’effetto opposto a quello desiderato, l’immagine è diventata ancora più virale, rilanciata, analizzata, sezionata. È il classico effetto Streisand, quello per cui tentare di nascondere qualcosa la rende ancora più visibile.
Ma anche questo era prevedibile. In un mondo in cui ogni screenshot vive per sempre, rimuovere una foto significa solo confermare la sua importanza. Eppure, dal punto di vista aziendale, non c’era alternativa: lasciare l’immagine online avrebbe significato alimentare un dibattito che lo studio non voleva nemmeno sfiorare.
La rete, intanto, ha fatto ciò che fa sempre: ha trasformato un dettaglio in un caso mondiale, un gesto banale in una saga virale. E come spesso succede, il significato originale si è perso per strada.
Quando ogni immagine diventa una bandiera
Viviamo in un’epoca in cui le immagini non appartengono più a chi le crea, ma a chi le interpreta. Ogni foto è una storia, ogni gesto un manifesto, ogni oggetto un simbolo.
Questo meccanismo ha reso il mestiere dell’artista e del comunicatore infinitamente più complesso, un autore come Zerocalcare, che da sempre difende la spontaneità e il linguaggio personale, si ritrova trascinato in dinamiche che non controlla e Hideo Kojima, genio del racconto interattivo, si scopre prigioniero della stessa macchina comunicativa che ha contribuito a costruire.
Il loro incontro, nato dalla curiosità reciproca tra due creativi, è stato divorato da un sistema che non conosce più sfumature. O sei con qualcuno, o sei contro o la tua immagine è neutra, o è militanza. In mezzo non c’è spazio, perché la complessità non genera traffico.
Politica, media e l’incapacità di stare zitti
In tutto questo, il comportamento di una certa politica italiana è stato esemplare, nel senso peggiore del termine.
C’è chi ha commentato la vicenda per parlare di “cancel culture”, chi per difendere l’autore, chi per accusarlo. Nessuno, o quasi, ha provato a capire cosa fosse realmente accaduto. È il solito meccanismo da talk show: prendere una storia internazionale, ridurla a slogan, spaccare il pubblico in due e raccogliere i like.
Non importa se la notizia sia vera o falsa, importa che divida e finché continueremo a confondere il giornalismo con la manipolazione algoritmica, continueremo a credere che ogni foto racconti una guerra culturale.
La fragilità dell’immagine nel mondo pop
L’episodio di Lucca ci dice molto di più di quanto sembri ci racconta che l’immagine è diventata una moneta volatile, e che il confine fra arte, marketing e geopolitica è ormai indistinguibile.
Una semplice foto fra un autore e un fan può diventare un caso internazionale, un brand globale può dover intervenire per difendere la propria neutralità, e un Paese intero può discutere per giorni di una polemica nata da un’inquadratura di tre secondi.
È la prova che viviamo in un’epoca dove la spontaneità è un rischio calcolato, e dove la libertà di sorridere accanto a qualcuno deve prima passare per un ufficio comunicazione.
Una lezione di lentezza e consapevolezza
Alla fine, il caso Zerocalcare–Kojima non è una tragedia, ma un sintomo.
Ci mostra quanto sia difficile comunicare in un mondo in cui ogni gesto diventa virale prima ancora di essere compreso. Ci ricorda che la lentezza è una virtù politica, e che saper contestualizzare un’immagine è un atto di maturità collettiva.
Ma ci dice anche che siamo sempre più prigionieri del nostro stesso bisogno di interpretare. Non accettiamo più che qualcosa possa essere solo un momento, solo una foto, solo un incontro.
Eppure, tutto era iniziato così: un fumettista che ammira un genio dei videogiochi, un sorriso sincero, un istante di entusiasmo. Il resto, la polemica, la rimozione, i titoli e le accuse l’abbiamo costruito noi.
Ed è questo, forse, il dato più inquietante: che ormai, anche nella cultura pop, la realtà non è più ciò che accade, ma ciò che siamo disposti a credere che sia accaduto.




