Il 7 maggio, nella platea televisiva dei David di Donatello, le luci soffuse e la musica d’archi avrebbero dovuto celebrare l’arte cinematografica. Invece, la scena è stata monopolizzata da Elio Germano, che – prendendo la parola da vincitore – ha attaccato frontalmente il Ministero della Cultura: «Il cinema è in crisi e la colpa è del ministero. Basta piazzare i propri uomini nei posti chiave, è roba da clan». Il video della sua arringa ha macinato click, trasformando la cerimonia in un talk-show politico e spostando l’attenzione dai premi alla polemica.
Il paradosso di Germano
L’indomani, i quotidiani hanno ricordato un dettaglio che il pubblico della serata ignorava: Confidenza, il film di cui Germano è protagonista, è costato circa sei milioni di euro – metà coperti da fondi pubblici – e si è fermato al botteghino a un milione e mezzo scarso. Mentre l’attore invocava «persone competenti», la sua ultima pellicola diventava l’ennesimo simbolo di un sistema che socializza le perdite e privatizza la visibilità. Un paradosso che non è passato inosservato nemmeno alla politica, pronta a ricordare come «più che lezioni servirebbe un po’ di umiltà».
L’articolo 24 e il rubinetto senza rubinetto
Per capire il meccanismo occorre tornare alla legge-quadro sul cinema del 2016, voluta dall’allora ministro PD Dario Franceschini. Il famigerato articolo 24 prevede contributi automatici per le società che abbiano raggiunto minimi risultati d’incasso o di presenze festivaliere con il film precedente. In pratica, un produttore con un titolo appena sufficiente ad aprirsi una “posizione contabile” attinge in anticipo al credito d’imposta per l’opera successiva, indipendentemente dal rischio d’impresa. Il flusso pubblico, così, non si arresta quasi mai: dal debutto della riforma si è passati da 140 milioni nel 2016 al record di 746 nel 2022, con il 2025 già programmato a 696 milioni.
I numeri del disastro
Uno sguardo ai casi recenti chiarisce la sproporzione tra sostegno pubblico e riscontro in sala.
| Film | Contributo pubblico | Incasso al botteghino |
|---|---|---|
| Confidenza (2024) | 2,7 mln € | 1,5 mln € |
| Accattaroma (2024) | 214 606 € | 3 000 € |
| Taxi Monamour (2024) | 724 000 € | 8 000 € |
| Prima di andare via (2023) | 700 000 € | 29 biglietti venduti |
Quattro esempi – certo non gli unici – che mostrano come l’automatismo dei fondi, unito all’assenza di criteri meritocratici, permetta a film destinati alla nicchia o addirittura al flop di affrontare la produzione con le spalle coperte dallo Stato.
L’autoreferenzialità della filiera
Nel frattempo, le giurie che assegnano premi e riconoscimenti – David, Nastri, festival cittadini – sono spesso composte dagli stessi beneficiari dei fondi o dai loro partner artistici. Il risultato è una filiera autoreferenziale: si finanziano pellicole di nicchia, le si premia come “cine d’autore” e si ottiene nuova “reputazione” per ripresentarsi al bando successivo. Non a caso, Pupi Avati ha parlato dal palco di «un ambiente opulento che premia se stesso, mentre il vero cinema italiano fatica a trovare spazio».
Il ministro Giuli e la stretta selettiva
Con l’arrivo del governo Meloni e del nuovo ministro Alessandro Giuli, il dicastero ha annunciato una rimodulazione dei criteri: più peso ai risultati effettivi di pubblico, commissioni di valutazione senza legami societari con le opere esaminate, rimborsi accelerati solo per chi centra obiettivi concreti. Gli addetti ai lavori che faticano a ottenere risorse salutano la svolta come un atto di giustizia; chi ha prosperato sull’automatismo, invece, grida allo “scippo” della cultura. È la cornice in cui vanno lette le invettive di Germano: non un grido nel deserto, ma la difesa di un modello di sovvenzione che la nuova gestione ministeriale vuole rendere finalmente selettivo.
Una politica industriale indispensabile
La partita non è – o non dovrebbe essere – destra contro sinistra. Il punto è che il cinema resta l’unico settore in cui il fallimento viene finanziato. Finché basterà ottenere un timbro burocratico per rivendicare milioni, continueremo a produrre titoli che parlano a un micro-pubblico e a scandalizzarci se i giovani preferiscono serie coreane su streaming. Servono:
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Finanziamenti in tranche legate a risultati minimi di pubblico, compresi gli sbocchi sulle piattaforme.
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Trasparenza totale: pubblicare online costi effettivi e incassi di ogni titolo sostenuto.
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Commissioni davvero indipendenti, formate da professionisti che non abbiano interessi diretti nelle produzioni.
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Credito d’imposta a scalare: chi colleziona flop perde progressivamente il bonus.
Solo così la filiera potrà smettere di misurare il successo in foto-op sui red carpet e tornare a inseguire spettatori, cioè il suo vero pubblico di riferimento.
I riflettori su una crisi reale
Le parole di Elio Germano hanno acceso i riflettori su una crisi reale; peccato che l’attore, ed emblematicamente il suo stesso film, incarnino proprio il problema. Finché fallire sarà un lusso garantito dal denaro pubblico, i David di Donatello conteranno più per le polemiche che per le pellicole premiate. Quando invece il settore accetterà l’idea che il rischio d’impresa vale anche in arte, forse torneremo a festeggiare il cinema e non l’ennesimo comizio travestito da notte delle stelle.




