Ci sono momenti nella storia in cui una società smette di riconoscere la propria stessa mostruosità. Quando il confine tra ciò che è umano e ciò che non lo è si dissolve, e la crudeltà diventa spettacolo, la follia diventa trend, la morte diventa contenuto da condividere. È il caso di Jean Pormanove — al secolo Raphael Graven — streamer francese di 46 anni, morto dopo una diretta durata 298 ore consecutive sulla piattaforma australiana Kick, in un delirio collettivo che più che un evento mediatico somiglia alla rappresentazione plastica della fine della dignità umana.
Era conosciuto con il nome d’arte di Jean Pormanove e aveva quasi 600mila follower su TikTok, dove si era costruito una fama macabra: quella dell’uomo disposto a tutto per intrattenere, perfino a farsi picchiare, umiliare, strangolare, torturare in diretta. E più il dolore era visibile, più la gente guardava, rideva, commentava, donava. Era il perfetto prodotto del nostro tempo, quello in cui la sofferenza diventa engagement e l’autodistruzione è premiata con il like.
La morte in diretta e il pubblico che applaude
La sua ultima diretta, una maratona di dodici giorni ininterrotti, è finita come non poteva che finire: con la morte in streaming.
Accanto a lui, due complici — che si facevano chiamare Naruto e Safine — lo hanno sottoposto a “prove estreme”, come le definivano loro, ma che in realtà erano torture vere e proprie: botte, soffocamenti, ingestione di sostanze tossiche. Tutto in nome del “contenuto”, tutto per far ridere e reagire la chat, tutto per qualche donazione in più.
E quando Pormanove è morto, per diversi minuti il suo corpo è rimasto visibile in diretta, immobile, riverso, mentre la chat continuava a scorrere, mentre qualcuno scriveva “Fake!”, altri ridevano, altri ancora incitavano a “continuare la challenge”. Nessuno ha interrotto la trasmissione. Nessuno ha chiamato la polizia.
È questo l’aspetto più agghiacciante: l’assuefazione collettiva alla brutalità, la totale incapacità di reagire di fronte all’orrore. È come se l’intera umanità, di fronte a una scena del genere, avesse scelto di rimanere spettatrice.
La società che osserva e non agisce
Non è solo un episodio isolato: è il sintomo di una società che ha smesso di intervenire, siamo diventati osservatori perenni, passivi, apatici, incapaci di distinguere la realtà dalla rappresentazione. Due persone litigano per strada e nessuno interviene: tutti filmano, un uomo muore in diretta e nessuno chiama i soccorsi: tutti commentano. La realtà è diventata uno spettacolo, e noi spettatori, invece di indignarci, cerchiamo la prospettiva migliore da cui riprendere la tragedia.
È la stessa dinamica che abbiamo visto nel caso di Niccolò Ciatti, massacrato a calci a Lloret de Mar sotto gli occhi di decine di ragazzi che anziché soccorrerlo, filmavano col telefono. Non si tratta più solo di indifferenza, ma di una mutazione antropologica: l’istinto di sopravvivenza collettivo si è trasformato in impulso voyeuristico.
Oggi non vogliamo più vivere le esperienze: vogliamo guardarle, consumarle, archiviarle. Il mondo è un flusso di immagini da commentare, non una realtà da affrontare.
Lo streaming estremo: la nuova arena dei gladiatori digitali
Kick, Twitch, YouTube, TikTok — non sono più solo piattaforme di intrattenimento, sono diventate le nuove arene del mondo contemporaneo, dove non scorre più il sangue vero, ma quello dell’anima.
Ogni giorno, migliaia di persone mettono in scena se stesse come vittime e carnefici, in una gara di resistenza psicologica, fisica e morale.
“Più soffri, più vali. Più ti umili, più diventi virale.” Questa è la regola non scritta del gioco.
Gli algoritmi lo sanno, lo calcolano, lo spingono: il dolore genera interazione, l’interazione genera denaro, è un meccanismo perfetto, tanto cinico quanto invisibile, le piattaforme guadagnano, i follower si divertono, gli streamer muoiono.
E quando succede, il sistema non si ferma: semplicemente passa al prossimo.
Il caso Pormanove non è una tragedia imprevista è una conseguenza logica di un mondo che monetizza la sofferenza e che ha sostituito l’etica con la visibilità.
La responsabilità collettiva che nessuno vuole assumersi
Si può parlare dei complici, certo — Naruto e Safine —, ma il problema è più profondo: la colpa è collettiva, la colpa è della piattaforma che permette di trasmettere 298 ore di streaming senza controllo., ma non solo, è del pubblico che guarda e ride, è dei media che rilanciano la notizia come gossip, senza interrogarsi su cosa significhi davvero.
Ma anche dello Stato, che ignora completamente un intero ecosistema economico e psicologico, fingendo che lo streaming sia solo un passatempo per ragazzini.
E invece no: è un lavoro vero, che muove milioni, che plasma mentalità, che forma generazioni. e come tale deve essere regolato, normato, tutelato.
Chi crea contenuti per milioni di adolescenti ha una responsabilità educativa, che lo voglia o no perché i ragazzi imitano, copiano, assorbono.
Se vedono un adulto torturarsi in diretta per qualche visualizzazione in più, penseranno che sia normale, che sia accettabile, che la vita reale valga meno di un commento.
Lo Stato dorme, l’etica è evaporata
Mentre il web corre a una velocità folle, i governi restano fermi, intrappolati in una burocrazia che non sa nemmeno definire cosa sia un “influencer”.
Abbiamo leggi per tutto — per la stampa, per la televisione, per la pubblicità — ma nessuna legge che regoli la comunicazione digitale contemporanea.
Le piattaforme si nascondono dietro il paravento del “noi siamo solo intermediari”, lavandosi le mani come Pilato, anche quando ospitano la morte in diretta di un uomo.
In un mondo sensato, Kick sarebbe già sotto processo. In un mondo etico, chi ha guardato senza agire verrebbe chiamato a rispondere moralmente. Ma viviamo in un’epoca in cui la responsabilità è liquida, come direbbe Bauman, e nessuno risponde mai di nulla, perché tutto accade online, e quindi “non è reale”.
L’illusione della fama e la follia del consenso
Pormanove non era solo un uomo fragile, era un simbolo patologico del nostro tempo: quello dell’egocentrismo spinto fino all’autodistruzione.
La sua vita era interamente costruita intorno allo sguardo degli altri, senza una telecamera, non esisteva.
E non è il solo: un’intera generazione sta crescendo convinta che la visibilità equivalga alla vita, che non conti essere, ma apparire.
Si resta connessi 24 ore su 24, si dorme con il telefono accanto, si misura il proprio valore in like e visualizzazioni si vive nell’ansia costante di scomparire dall’algoritmo, di non essere più visti, più commentati, più notati. È una forma moderna di schiavitù, subdola e pericolosa, che uccide lentamente la percezione della realtà.
Molti streamer finiscono in burnout, in depressione, in ossessioni patologiche da prestazione ma nessuno ne parla, perché dietro la parola “contenuto” si nasconde il lavoro invisibile di chi consuma la propria sanità mentale per restare rilevante.
L’infanzia smarrita del digitale
A inquietare davvero, però, è chi guarda, milioni di adolescenti cresciuti dentro un ecosistema di cinismo e disconnessione emotiva. Ragazzi che non distinguono più tra dolore vero e spettacolo, per loro il male è “intrattenimento”, la sofferenza è “contenuto”, la morte è “una scena forte”.
E non è colpa loro, ma di un mondo adulto che ha smesso di educare, lasciando che fosse TikTok a spiegare cos’è giusto, cos’è cool, cos’è “virale”.
La civiltà dello spettacolo (senza più civiltà)
Il caso Pormanove non è un incidente è una fotografia perfetta della nostra epoca, un’istantanea nitida di un’umanità che ha smarrito il pudore e la compassione.
Viviamo immersi in una pornografia del dolore, dove la sofferenza altrui diventa intrattenimento e la violenza viene metabolizzata come un format.
Non ci indigniamo più perché non abbiamo più tempo di farlo: dobbiamo passare subito al video successivo, tutto dura un istante, tutto si consuma, anche la morte.
La tragedia di Jean Pormanove durerà nel ciclo mediatico quanto un balletto virale: un paio di giorni, poi il nulla.
Il vero reality è la realtà
Forse Pormanove pensava di “farcela”, di reggere, di stupire, forse credeva di controllare il gioco ma il gioco lo ha inghiottito.
È morto davanti a migliaia di persone che lo guardavano morire come fosse un film, e questo, più di ogni altra cosa, racconta chi siamo diventati: un pubblico incapace di provare empatia, anestetizzato dal flusso continuo di immagini.
Se questa è la nuova forma di intrattenimento, se questa è la “società dello spettacolo” che Guy Debord aveva profetizzato, allora il reality non è più un programma televisivo: è la nostra esistenza quotidiana. Solo che non ha sceneggiatori, e quando finisce non c’è nessun applauso. Solo silenzio.





