La vicenda che vede protagonisti l’ex nuotatore Manuel Bortuzzo e la sua ex compagna Lulù Selassié ha conosciuto un importante sviluppo giudiziario: la condanna in primo grado per stalking di Selassié nei confronti di Bortuzzo.
Nonostante questa pronuncia, negli ultimi tempi si è assistito a un progressivo spostamento dell’opinione pubblica, in particolare della componente femminile, dalla parte di lei, presentata quasi come vittima di una macchinazione o addirittura di un complotto mediatico orchestrato contro di lei.
Al contrario, l’uomo viene dipinto come colui che avrebbe “gonfiato” o addirittura inventato accuse, secondo alcuni commenti e articoli circolati online.
È senz’altro legittimo che una persona condannata in primo grado continui a difendersi, soprattutto in attesa di un eventuale ricorso in appello. Tuttavia, ciò che appare altrettanto legittimo — e doveroso — è la necessità di informare correttamente l’opinione pubblica sui fatti, rispettando l’esito giudiziario (pur non definitivo).
Ed è qui che alcune testate giornalistiche paiono avere assunto un atteggiamento discutibile, se non apertamente fazioso.
L’atteggiamento ambiguo di certa stampa online
In un primo momento, una testata online molto famosa ha intervistato Selassié, che ha ribadito di non essere affatto una stalker, puntando il dito su una presunta manipolazione della narrazione e presentandosi come vittima di un contesto che l’avrebbe dipinta in modo scorretto.
Fin qui, nulla di strano: è normale che l’imputata, o in questo caso la condannata in primo grado, abbia spazio per spiegare la propria versione. Ciò che colpisce, però, è il passo successivo.
Pochi giorni dopo, la stessa testata ha pubblicato un articolo su un’intervista RAI che Manuel Bortuzzo avrebbe “cannato” (ossia rifiutato o mancato) all’ultimo momento, fornendo un preavviso minimo e quindi — a detta dell’articolo — creando un certo disagio alla produzione.
Da un punto di vista giornalistico, anche questa può essere una notizia; il problema sorge quando il racconto dei fatti non si limita a riportare un comportamento di Bortuzzo, ma sembra insinuare una sua presunta inaffidabilità e scarsa trasparenza, quasi a voler rafforzare la narrativa secondo la quale tutta la sua storia contro Selassié sarebbe stata orchestrata ad arte.
Così, nell’arco di pochi giorni, si è passati da un’intervista in cui la condannata per stalking negava ogni addebito, a un articolo in cui si delineava un’immagine poco limpida della parte offesa. Un accostamento che, in un contesto mediatico già rovente, ha finito per alimentare una corrente di pensiero secondo la quale “lui avrebbe inventato tutto”.
L’impatto sull’opinione pubblica e il ruolo dei social
Queste narrazioni trovano terreno fertile sui social network, dove un crescente numero di commenti sostiene che Selassié sia in realtà vittima di una macchinazione, mentre Bortuzzo viene bollato come bugiardo. Il dato più significativo è che molta parte di queste voci proviene da utenti donne.
Alcune di esse, anche per via di una certa impostazione femminista radicale, hanno abbracciato senza riserve la versione di Selassié, spostando il dibattito dai fatti processuali verificabili (una condanna in primo grado) alla teoria di un “gomblotto” contro di lei.
Questo fenomeno mediatico — non nuovo, ma in costante crescita — testimonia come talvolta venga sostenuto, in modo quasi preconcetto, il principio secondo cui la donna è sempre vittima e l’uomo sempre colpevole.
Un principio che, sebbene nasca dalla comprensibile reazione a secoli di discriminazioni e violenze subite dalle donne, rischia di degenerare in una forma di ingiusta stigmatizzazione a parti inverse, danneggiando soprattutto la reale comprensione dei fatti.
L’atteggiamento delle testate e il rischio di “intossicare” il dibattito
In molti casi, l’analisi critica della vicenda — che dovrebbe essere pacata e fondata su riscontri oggettivi — lascia il posto a titoli sensazionalistici e prese di posizione squilibrate. Alcune testate sembrano infatti più interessate ad assecondare una narrazione in cui la donna è sempre “innocente a prescindere” e l’uomo sempre “oppressore di default”. Sebbene ciò possa risultare più “comodo” nel catturare l’attenzione del pubblico femminile, finisce per banalizzare, se non addirittura stravolgere, la verità dei fatti, in questo caso già sottoposta a un vaglio giudiziario.
Tale approccio mediatico, in cui si polarizzano i ruoli di buono e cattivo, non tiene conto delle sfumature e finisce per “intossicare” il dibattito pubblico. Se i media — per ragioni di audience, click o pura militanza ideologica — scelgono di offrire una rappresentazione distorta, il rischio è che la cittadinanza maturi convinzioni basate più su suggestioni emotive che su elementi concreti.
L’informazione del sensazionalismo
Il caso Bortuzzo–Selassié dovrebbe rappresentare un monito per rendersi conto di quanto, talvolta, l’informazione possa privilegiare la ricerca del sensazionalismo a scapito di una corretta ricostruzione dei fatti.
Una condanna in primo grado non è definitiva, ma ha pur sempre un valore giudiziario basato su prove e testimonianze; minimizzarla o liquidarla come mera invenzione significa alterare la percezione dell’opinione pubblica, già di per sé soggetta a forti influenze ideologiche e condizionamenti social. Sostenere che la donna sia sempre e comunque innocente, mentre l’uomo è un bugiardo o un manipolatore, non fa altro che seminare divisioni e preconcetti, spostando l’attenzione dal merito effettivo della vicenda.
In questo clima, la stampa rischia di perdere credibilità e di condannare il pubblico a una lettura parziale della realtà, deformata da schieramenti faziosi e da un eccesso di tifo ideologico. Il risultato è un dibattito in cui prevalgono slogan e accuse reciproche, a scapito di un confronto aperto e basato su elementi concreti. Soltanto un giornalismo responsabile e un pubblico critico possono arginare questo fenomeno, restituendo alla discussione la sobrietà e l’equilibrio che meritano temi tanto delicati.