Ci sono momenti nella vita di una nazione in cui il confine tra libertà e decenza si fa sottile, quasi impercettibile. L’Italia di oggi sembra averlo non solo oltrepassato, ma cancellato del tutto. È accaduto in occasione dell’ultimo Halloween, quando tre studentesse universitarie hanno pensato bene di travestirsi da “caso Moro”: una in versione Renault 4 rossa, un’altra con la maglietta delle Brigate Rosse, la terza nei panni di Aldo Moro. Il tutto condito da risate, balletti e un video su TikTok.
Uno scherzo, diranno alcuni. Una provocazione, risponderanno altri. Ma la verità è che di scherzoso non c’è niente. In questa rappresentazione grottesca di uno dei momenti più oscuri della storia repubblicana si condensa il fallimento culturale di un Paese che non solo non ricorda, ma ride di ciò che dovrebbe rispettare.
La leggerezza del male
Non è la prima volta che accade. Qualche mese fa, sempre in ambiente universitario, alcune studentesse avevano rilanciato la figura di una “Barbie brigatista”, mescolando moda e terrorismo in una trovata di cattivo gusto che aveva già sollevato polemiche. Ma questa volta il passo oltre è netto: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro non sono solo un fatto di cronaca storica, sono una ferita nazionale. Cinque uomini della sua scorta massacrati in via Fani, un Paese in ginocchio, un corpo ritrovato in un’auto anonima che è diventata simbolo del dolore collettivo.
Ridurre tutto a un costume di Halloween è come travestirsi da Auschwitz o da Capaci. È la banalizzazione del male, per dirla con Hannah Arendt, ma in versione social: un male inconsapevole, svuotato di ideologia, filtrato da like e da risate. Non più rabbia, non più memoria, solo spettacolo.
Quando la storia diventa intrattenimento
Viviamo in un’epoca in cui ogni cosa è contenuto. La tragedia, il dolore, la politica, la morte. Tutto deve essere convertito in materiale da postare, da condividere, da far girare. Il dramma collettivo si trasforma in performance, e l’indignazione in engagement.
È la logica spietata dei social network: se non fa views, non esiste. Così anche la storia più drammatica viene piegata alla logica della visibilità.
A questo si aggiunge una tendenza pericolosa, forse la più subdola di tutte: la manipolazione della memoria attraverso la leggerezza. Non si tratta più di negare o riscrivere gli eventi, ma di svuotarli di peso, di trasformarli in parodia. Il risultato è lo stesso: la memoria scompare, ma in modo più morbido, più accettabile. Si ride invece di riflettere, si clicca invece di comprendere.
Halloween, o la festa travisata
C’è poi un ulteriore elemento che aggrava tutto questo: Halloween non è carnevale. Non è la festa del “mi travesto da qualunque cosa”, ma una celebrazione della soglia tra vita e morte, un rito che affonda in tradizioni antiche e simboliche.
Ridurlo a pretesto per vestirsi da qualsiasi “orrore” significa già non capirne il senso. Ma scegliere come orrore la memoria di un delitto politico vero, di un uomo che ha pagato con la vita il proprio servizio allo Stato, supera il limite.
Non è più trasgressione: è ignoranza. E l’ignoranza, in questo caso, è figlia diretta di una società che ha smesso di distinguere tra simboli e spettacolo. Il sangue di Aldo Moro non è un costume, è la testimonianza di un tempo in cui la democrazia italiana vacillò davvero.
L’università che dimentica se stessa
A rendere la vicenda ancora più amara è il contesto: studentesse di Scienze Politiche. Dovrebbero essere le eredi di quella cultura civica e istituzionale che nasce proprio dal dramma di quegli anni.
E invece, da qualche tempo, l’università italiana – o almeno una parte di essa – sembra più attenta alla provocazione che alla conoscenza, più incline al gesto politico che alla riflessione.
C’è una sinistra accademica che gioca con il fuoco, che ammicca a certi simboli come se fossero solo “provocazioni artistiche”, dimenticando che dietro quei simboli ci sono morti veri, famiglie distrutte, agenti dello Stato falciati.
Non è più solo superficialità: è deriva ideologica, travestita da libertà di espressione. È la convinzione, malata, che tutto sia legittimo in nome del dissenso, anche dissacrare ciò che dovrebbe unire.
La politica che manipola i giovani
La verità è che i giovani non nascono così. Nessuno nasce pensando che travestirsi da Brigate Rosse sia divertente. Ci si arriva, passo dopo passo, dentro un clima culturale che spinge verso la provocazione fine a sé stessa e la confusione dei valori.
In questa distorsione, la politica ha un ruolo enorme.
Da anni assistiamo a un revisionismo strisciante dell’estremismo rosso, dove le Brigate Rosse vengono raccontate non più come assassini, ma come “ribelli contro il sistema”. Lo si fa con film, con dibattiti universitari, con libri che parlano di “errori di gioventù” o di “lotta sociale degenerata”.
Tutto ciò crea una narrazione tossica che toglie il peso morale al terrorismo. E così, nella mente di chi è nato vent’anni dopo, quelle immagini non evocano più dolore, ma folklore.
Il dramma è che questi ragazzi vengono educati a non avere memoria, a non distinguere tra vittime e carnefici, tra Stato e anti-Stato. È la politica a farlo, quando piega la storia per farne propaganda.
La rimozione selettiva della memoria
C’è un altro elemento da sottolineare: la memoria in Italia è selettiva. Ci si indigna – giustamente – per le stragi di mafia, per i crimini neofascisti, per il terrorismo nero. Ma quando si parla di terrorismo rosso, improvvisamente scatta una prudenza inspiegabile.
Si parla di “anni difficili”, di “clima di tensione”, di “reazioni a un sistema oppressivo”. Come se ci fosse sempre un contesto attenuante.
È un’ipocrisia che avvelena il dibattito pubblico e che permette a certe derive di riemergere, anche in forma grottesca come quella di questo Halloween.
Perché se si continua a raccontare le Brigate Rosse come un fenomeno “complesso”, anziché come quello che erano – un’organizzazione terroristica che ha sparato, rapito, ucciso – allora non deve stupire che qualcuno finisca per travestirsi da loro.
Una generazione senza maestri
La colpa, però, non è solo politica. È anche generazionale. I giovani di oggi sono cresciuti in un mondo dove tutto è simultaneo, dove passato e presente convivono nello stesso scroll infinito. Non c’è più profondità, solo superficie.
La scuola e l’università, incapaci di trasmettere la dimensione etica della storia, hanno smesso di formare cittadini e si limitano a produrre utenti.
Ma non è colpa dei ragazzi se la società ha smesso di insegnare loro cosa significa rispetto. È colpa di chi ha ridotto la cultura a performance, di chi ha smantellato la memoria in nome della modernità.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un Halloween dove il dolore diventa costume, dove la storia si fa intrattenimento, dove il rispetto è un concetto obsoleto.
Il prezzo dell’oblio
Ogni Paese ha i propri fantasmi, e il modo in cui li affronta ne determina la maturità. Noi italiani, invece, sembriamo preferire dimenticare. Dimenticare le stragi, le bombe, i morti ammazzati. Dimenticare che dietro quella Renault 4 rossa non c’era solo un corpo, ma l’idea stessa di democrazia.
E quando si dimentica, tutto torna possibile. Anche il ritorno di chi, un tempo, voleva abbattere lo Stato.
L’oblio è il terreno più fertile per la manipolazione politica. E chi oggi ride di Moro, domani potrà ridere di qualunque altra cosa. Perché quando tutto è parodia, nulla è più sacro.
La decenza come atto rivoluzionario
Non servono leggi, censure o divieti per impedire simili scempi. Serve educazione alla memoria. Serve insegnare che la libertà non è assenza di limiti, ma consapevolezza dei propri confini morali.
Essere liberi non significa poter ridere di tutto. Significa sapere che alcune cose non si toccano, non si banalizzano, non si travestono.
Aldo Moro non è un personaggio da meme. È il simbolo di una Repubblica che ha sofferto, di uomini e donne che hanno pagato con la vita per difendere le istituzioni.
Ricordarlo non è nostalgia, è igiene civile.
Forse è questo che dovremmo insegnare ai nostri figli: che il rispetto è la forma più alta di libertà. E che travestirsi da tragedia non è provocazione, ma miseria morale.




