Lo dico subito, senza salvagenti retorici: la Global Sumud Flotilla è nata per portare aiuti a Gaza e per accendere un faro sulla tragedia umanitaria, ma negli ultimi giorni ha mostrato con spietata chiarezza il cortocircuito tipico dei movimenti che confondono la messa in scena con la messa in mare; si è partiti con l’epica della rotta, con l’immaginario della “grande traversata” e con il proposito di rompere un blocco politico e simbolico, e ci si ritrova a fare i conti con la realtà rude della logistica, con i nervi scoperti di una coalizione divisa e con una comunicazione che spara fuochi d’artificio quando servirebbero soltanto carburante, pezzi di ricambio, disciplina e silenzio operativo.
Greta Thunberg che lascia il direttivo e si sposta su un’altra barca per ridurre il rumore dei protagonismi; la connessione satellitare di Starlink — sì, proprio quella del “nemico” per antonomasia — usata per restare online; dimissioni, accuse incrociate e persino la frattura su chi può o non può salire a bordo in base all’identità delle persone; il tutto condito da fermate interminabili, mancanza di carburante, imbarcazioni di fortuna e racconti confusi su presunti droni: sommatele, queste cose, e vi accorgete che la distanza tra narrazione e operazione sta diventando voragine. E quando la voragine si apre, il primo effetto collaterale è che anche le piazze italiane — piene, generose, arrabbiate — perdono trazione perché la cornice simbolica che le tiene insieme inizia a scricchiolare.
Greta, la governance e il coraggio del passo di lato
Il gesto di Greta non è un capriccio da star del movimento, ma un termometro clinico: se una figura abituata a reggere il peso della comunicazione decide di uscire dalla cabina di regia perché la comunicazione è diventata un problema più che una risorsa, allora vuol dire che la governance non regge.
Una missione in mare — non un festival, non un presidio, non un’assemblea — chiede una catena di comando chiara, responsabilità definite, criteri di decisione e di verifica indipendente, non il carosello delle dirette e il ping-pong di comunicati corretti a ogni tramontana. Il passo di lato, per paradosso, è l’unica mossa adulta vista finora: indica che qualcuno ha capito che la barca non si guida con i thread.
Starlink, l’eresia utile: quando l’ideologia sbatte contro l’orbita bassa
La scena è quasi comica, se non fosse tragica: mesi di invettive contro il tycoon cattivo e poi, quando ti ritrovi in mezzo al mare, scopri che senza una rete satellitare affidabile sparisci; internet non è un vezzo, è safety e comando-controllo, è mappa meteorologica, è coordinamento con i porti, è monitoraggio AIS, è contatto con la stampa se vuoi essere credibile.
Allora che fai? Sali sulla piattaforma detestata e la usi, perché le alternative o non ci sono o non sono operative per un gruppo di barche eterogenee che devono restare collegate. Qui non c’è scandalo: c’è realismo operativo. E c’è un punto più scomodo: se in fase di pianificazione affidi la comunicazione a un romanticismo antitecnologico e poi ti aggrappi alla tecnologia che hai demonizzato, non hai soltanto una contraddizione, hai la prova che la preparazione tecnica è stata trattata come variabile di contorno.
Gli “attacchi fantasma”, la prova che non c’è e la credibilità che evapora
Se dici “droni”, devi mostrare evidenze: non spezzoni video, non audio tremolanti, non fotografie sgranate di scintille nel buio, ma perizie, relazioni tecniche, residui catalogati, tracciabilità temporale e posizionale, testimonianze incrociate di bordo e di terra.
In mare, dove la percezione è fallibile e la propaganda vola più veloce del maestrale, l’unico casco integrale è la verificabilità. Senza quella, la storia degli “attacchi” resta una narrazione che solletica i già convinti e regala munizioni agli scettici. Non basta dire “ci hanno colpiti”: serve spiegare come, con cosa, a che distanza, con che danni, e farlo analizzare a terzi. Altrimenti l’etichetta di “attacchi fantasma” attecchisce e la credibilità si sbriciola.
Carburante, soste e improvvisazione: l’umanitario non perdona i conti della cambusa
Una flotta non è un corteo su acqua: è bunkeraggio, è pianificazione dei consumi, è scalo tecnico programmato, è magazzino di pezzi, è check di pompe, prese a mare, guaine, cime, vele (se ci sono), motori e alternatori; è carte nautiche aggiornate, è rispetto di SOLAS e delle zone SAR, è tabella turni, è rifornimenti alimentari e idrici con margini plausibili per ritardi e maltempo.
Se stai fermo perché manca carburante o se ricominci a rimescolare equipaggi e imbarcazioni all’ultimo, non stai “resistendo”, stai dimostrando impreparazione. E l’impreparazione, a differenza dell’indignazione, si vede a occhio nudo: è la differenza tra una flotta e una armata Brancaleone.
Inclusione, identità e disciplina: la frattura che non vuoi vedere
Oggi invece arriva la polemica sulla presenza di attivisti LGBTQ+ che non è un “capriccio identitario”, è un crash culturale che chi guida una missione mediterranea avrebbe dovuto anticipare; se metti insieme equipaggi, partner, coordinatori e sostenitori provenienti da mondi che hanno sistemi di valori incompatibili, devi scrivere prima un patto di spedizione che dica cosa è non negoziabile, come si gestiscono le divergenze, quali sono i confini.
Non lo fai? Allora a bordo riproduci lo stesso conflitto che dici di voler superare a terra, e lo fai nel peggiore dei luoghi possibili: in mare, dove ogni litigio è benzina per l’entropia e ogni spaccatura si traduce in ritardi, smentite, dimissioni. L’inclusione vera non è mettere tutti sullo stesso ponte; è definire una cornice di valori e pretendere lealtà a quella cornice per la durata della missione.
Le piazze italiane e il rischio di bruciarsi al sole dell’epica
Le piazze hanno fatto il loro: hanno rimesso Gaza al centro, hanno mostrato che il tema non dorme, hanno trasformato l’empatia in pressione politica. Ma una piazza regge se la cornice regge; se l’icona che hai scelto per raccontarti — la Flotilla che sfida il blocco — si offusca, la piazza non ha torto, perde solo propellente narrativo.
Chi prende un treno per un corteo, chi blocca un porto, chi si prende insulti, manganelli o denunce ha diritto di sapere che la spina dorsale operativa è solida: che le navi non sono scenografie, che i capitani hanno piani, che il carburante c’è, che la rotta è definita, che le eventuali aggressioni sono documentate in modo da reggere a qualsiasi scrivania di magistrato. Altrimenti l’onda emotiva si infrange sui frangiflutti della realtà e la prossima volta la gente esita.
Umanitario vs autopromozione: la domanda cattiva che bisogna farsi
Quanta percentuale di questa operazione è logistica degli aiuti e quanta è produzione di contenuti? Non è un’accusa, è un dovere chiederselo: se il risultato concreto della settimana sono tonnellate consegnate pari a zero e ore di dirette pari a centinaia, vuol dire che l’ago pende dalla parte sbagliata.
Non dico che la comunicazione non serva — serve, eccome — ma dev’essere conseguenza di una azione riuscita, non sostituto, non fumo, non rumore bianco. Gaza non ha bisogno di un altro racconto eroico, ha bisogno di cibo, acqua, medicinali, carburante per ospedali e desalinizzatori, corridoi e garanzie di sicurezza. Se il mare diventa un palcoscenico, allora stai usando la sofferenza come fondale.
Cosa fare (sul serio) se vuoi che una flottiglia funzioni
Non bastano appelli, serve metodo. E un metodo, nel concreto, significa alcune cose scomode ma indispensabili.
Definire una catena di comando vera
Un comandante di missione unico con potere di veto operativo, referenti di barca, procedure scritte su chi parla e quando, e un gruppo di verifica indipendente (marittimisti, tecnici, giuristi, medici umanitari) che assevera qualsiasi informazione critica prima che prenda il largo sui social. Non perché bisogna “filtrare”, ma perché bisogna proteggere la missione dalla propria voglia di raccontarsi.
Pianificare il mare come se fosse il mare
Bunkeraggio garantito, scali tecnici schedulati, un magazzino mobile di pezzi (pompe, filtri, giranti, cinghie, cime, paraoli, fusibili, fanali, EPIRB di backup), equipaggi addestrati ai ruoli e alle emergenze, check pre-partenza con standard minimi non negoziabili; assicurazioni, bandiere e registri a posto, rapporti chiari con le autorità di porto e con i centri SAR lungo la rotta; meteorologia reale e piani di diversione; regole d’ingresso in area di conflitto con protocolli di deconfliction, contatti — anche informali — con le istituzioni che controllano lo spazio marittimo. Romantico? No. Necessario.
Ridurre l’epica, aumentare l’OPSEC
La sicurezza operativa non è censura, è sobrietà: niente dirette che mostrano posizioni e vulnerabilità, nessun dettaglio tecnico che aiuti eventuali sabotatori, nessun trionfalismo che si ritorce contro al primo guasto. La storia si racconta dopo che hai consegnato, non durante, e si racconta con documenti, non con caroselli.
Preparare la prova, non lo slogan
Se parli di attacchi, prepari il “dossier” con timeline, coordinate, perizie, foto geotaggate, frammenti raccolti in contenitori sigillati, testimonianze, diagnosi dei danni; lo fai validare da esperti terzi; lo condividi in modo che chiunque — favorevole o contrario — possa valutarlo. Perdi un giorno in più, guadagni credibilità.
Fare i conti con le identità prima di salpare
Redigere un codice di spedizione chiaro: cosa è parte della missione e cosa no, quali simboli si portano e quali si lasciano a terra, come si risolvono conflitti culturali, quali sono i comportamenti che portano all’allontanamento, chi media e con quale autorità. La nave non è il luogo dell’assemblea permanente; è il luogo della disciplina temporanea al servizio di un obiettivo.
Scegliere la nave giusta (e il modello giusto)
Forse una costellazione di barche piccole e fragili, disperse e difficili da coordinare, non è il modello: meglio un’unità capace di carico vero, con equipaggio professionale e un contorno di supporto tecnico, e magari un corridoio negoziato con attori internazionali che si occupano di aiuti da decenni. Meno romantico, più efficace. Si chiama professionalizzazione, e non è tradimento: è il contrario.
Le manifestazioni in Italia: come evitare la trappola dell’autoreferenzialità
Se davvero vogliamo che le piazze non siano fuochi di paglia, serve una cosa semplice: legare ogni gesto simbolico a un gesto pratico. Non solo striscioni e blocchi, ma raccolte fondi vincolate ai capitoli “carburante e pezzi di ricambio”; non solo slogan, ma pressing istituzionale su chi può aprire corridoi umanitari o garantire scali sicuri; non solo indignazione, ma volontari che sanno tradurre la loro presenza in competenze: medici, logisti, tecnici di bordo, radio-operatori, giuristi del mare, ingegneri navali, comunicatori capaci di rispettare i protocolli. La solidarietà è un muscolo: se lo alleni al gesto utile, resta forte; se lo alleni alla posa, si atrofizza.
La lezione più antipatica: meno palcoscenico, più rotta
Il mare punisce gli improvvisati, e non lo fa con le opinioni: lo fa con le onde, con i guasti, con le carte timbrate, con il gasolio che finisce, con il vento contrario che ti svela che non eri pronto.
Chi porta aiuti non può accontentarsi del racconto, deve diventare noioso come lo sono i professionisti quando pianificano: tutto quello che al pubblico pare tedioso — checklist, protocolli, numeri, turni, ridondanze, simulazioni — in realtà è la sostanza che ti fa arrivare in porto. Se la Global Sumud Flotilla vuole tornare a essere ciò che ha promesso di essere, deve disinnescare l’ego delle sue anime più rumorose, deve fare pace con la tecnologia (anche quando arriva da chi non ami), deve mettere in chiaro la cornice valoriale per evitare fratture previste e prevedibili, e deve soprattutto consegnare risultati misurabili: tonnellate scaricate, strutture mediche rifornite, rotte ripetibili.
Tiriamo le somme: smettere di cambiare inquadrature e cominciare a cambiare la realtà
Non mi interessa appiccicare etichette di buoni e cattivi, mi interessa una cosa soltanto: che gli aiuti arrivino, che il mare non sia un palco, che la sofferenza non diventi scenografia, che la politica torni strumentale e non centrale. Greta che si sposta di lato segnala che c’è un problema di cabina di regia; l’uso della rete “del nemico” dice che la realtà tecnologica è più forte dei nostri giudizi morali; le dimissioni e le polemiche identitarie dicono che non si improvvisa una coalizione multietnica e multivaloriale in un ambiente che pretende disciplina; il carburante che manca e le soste infinite dicono che non si aggira la logistica con l’entusiasmo.
Se continuiamo così, avrà ragione il cinico che sussurra che questa è una flottiglia di selfie, una carovana digitale che cambia inquadrature invece di cambiare la realtà. Se invece si accetta la fatica di diventare adulti — meno parola, più mestiere — allora, e solo allora, la prossima volta che una piazza si muove avrà dietro una nave che arriva, scarica, riparte e tace. E lì, finalmente, parleranno i fatti.