C’è un’immagine che racconta, meglio di qualsiasi analisi, la crisi della sinistra italiana: Emanuele Fiano, volto storico del Partito Democratico e simbolo di una battaglia antifascista condotta nelle istituzioni, zittito da un gruppo di attivisti pro-Palestina in un’aula universitaria di Venezia. Succede a Ca’ Foscari, durante un incontro su uno dei temi più difficili e divisivi del nostro tempo: la pace in Medio Oriente. L’obiettivo era discutere di “due popoli, due Stati”, una posizione che per decenni è stata la grammatica naturale del riformismo progressista, la lingua dell’equilibrio e del dialogo. Ma oggi non basta più parlare di pace: bisogna parlare “la” pace secondo il catechismo del momento, distinguendo i “puri” dai “traditori”. Così, quando Fiano prova a intervenire, il “Collettivo Sumud” irrompe nell’aula di San Giobbe: urla, megafoni, striscioni. Fine del dibattito, fine del pensiero.
Il cortocircuito arriva dopo: Fiano, uomo di centrosinistra, presidente di “Sinistra per Israele” — definisce l’accaduto “un atto fascista”. L’affermazione spiazza: se “fascisti” sono ora gli studenti pro-Pal, cioè quelli che per tradizione la sinistra considerava “compagni di strada”, allora la domanda diventa inevitabile: chi definisce cosa sia fascismo oggi, e con quali criteri?
Il fascismo come etichetta universale
La parola “fascismo” è diventata un passepartout da incollare su chiunque non si pieghi alla narrazione dominante. Un termine che un tempo evocava dittatura, soppressione della libertà, violenza di regime, oggi funge da arma linguistica pronta all’uso: basta deviare di un millimetro dalla linea del gruppo per ritrovarsi marchiati. Non serve più studiare, capire, contestualizzare: basta dissentire.
È accaduto con la destra, certo, ma ormai succede anche dentro la sinistra, ed è qui che il cortocircuito esplode. A Venezia, un esponente progressista, pacifista, impegnato da anni contro ogni autoritarismo, viene messo a tacere da chi si proclama antifascista. Quando risponde parlando di “modalità fasciste”, quella parola — svuotata dal suo peso storico — si infrange come una bomba semantica su un terreno ormai logorato: se tutto è fascismo, niente lo è davvero.
L’antifascismo autentico, nato per difendere libertà e pluralismo, scivola così in rituale di appartenenza, tessera simbolica più che valore praticato. E il paradosso si compie: uno dei “sacerdoti” di quella tradizione finisce scomunicato dalla sua stessa chiesa, mentre l’etichetta soppianta l’argomento.
Quando la sinistra diventa illiberale
L’episodio di Venezia non è un incidente, ma il sintomo di una trasformazione lenta e profonda: una parte della sinistra si è fatta illiberale. Per decenni si è raccontata come baluardo della libertà di pensiero, del confronto tra idee, del dissenso come ossigeno della democrazia; oggi, troppo spesso, sostituisce il dibattito con il dogma, la critica con la morale, la ragione con la fede ideologica. Chi esce di un millimetro dalla linea del momento è percepito come minaccia: non conta la qualità degli argomenti, ma l’appartenenza al gruppo e l’uso del lessico giusto. È la dinamica dei sistemi autoritari: la fedeltà vale più della verità.
La scena di Ca’ Foscari — giovani che si definiscono “antifascisti” intenti a zittire un ebreo di sinistra mentre parla di pace — smaschera l’ipocrisia di un mondo che predica libertà e pratica censura. Impedire a qualcuno di parlare è, in qualunque contesto, un atto autoritario, se a compierlo è chi si autoinveste di superiorità morale, la contraddizione diventa grottesca. Così la “sinistra del pensiero” si dissolve in un moralismo inquisitorio: si sorvegliano parole e toni, si sospetta del dubbio, si teme l’eterodossia. E si diventa illiberali senza nemmeno accorgersene.
Le parole della rettrice e il silenzio degli altri
In quel caos di megafoni e slogan, la voce della rettrice Tiziana Lippiello suona come un richiamo elementare alla civiltà: “A Ca’ Foscari tutti hanno diritto di parola, coltiviamo il dialogo e il pensiero critico, sempre nel rispetto delle persone”. Parole normali, e proprio per questo coraggiose in tempi che pretendono il lasciapassare ideologico. Il presidente dell’associazione studentesca Futura, Simone Rizzo, ricorda che molti contestatori non erano nemmeno studenti: non è solo disordine interno, è colonizzazione delle aule da parte della logica di piazza.
Questi episodi non nascono nel vuoto: crescono in un clima in cui il diritto di parola è concesso solo a chi ripete le formule giuste, dove l’errore diventa colpa e il dissenso motivo di gogna. Se l’università abdica alla sua funzione di spazio libero, il resto della società segue. Il silenzio imbarazzato che spesso accompagna richiami come quello della rettrice, poche prese di posizione, nessuna discussione ampia, pesa più delle urla dei contestatori: significa che l’intimidazione vince sulla responsabilità, e che difendere la libertà di parola è diventato, paradossalmente, sospetto.
La crisi del pensiero e il culto dello slogan
Il male profondo è la scomparsa del pensiero critico, sostituito dal culto dello slogan: si reagisce, non si riflette, si eredita un’opinione, non la si costruisce. La discussione si riduce a una tifoseria binaria, dove la complessità, un tempo nutrimento naturale della sinistra, diventa un lusso impraticabile. Parlare di pace in Medio Oriente richiede conoscenza e pazienza ma conoscenza e pazienza non generano identità istantanee. Così la politica si appiattisce, la cultura si deprime, il confronto scade in gara di purezza.
I social, che avrebbero dovuto allargare il dialogo, hanno costruito una prigione di consenso immediato: la velocità sostituisce la riflessione, la viralità soppianta la verità. Ogni tema si riduce a hashtag e cartelli e la sinistra, che avrebbe dovuto difendere linguaggio e cultura, si fa trascinare dal mordi e fuggi emotivo. Il dubbio, essenza dell’intelligenza, diventa sospetto, chi lo coltiva rischia l’accusa di “minimizzare” o di “negare”. L’università, ultimo rifugio naturale della complessità, si confonde con la piazza: tra seminario e talk show non passa quasi più differenza. Quando lo slogan sostituisce la verità, non c’è libertà possibile.
Da Ostia a Venezia: la sinistra che espelle
Non è un caso isolato. A Ostia, poche settimane fa, un cittadino attivista che voleva partecipare ad una manifestazione per la pace in Medio Oriente, nessun simbolo di partito, nessuna provocazione, è stato circondato e cacciato da una manifestazione pro-Pal con l’accusa di “strumentalizzare” la causa. L’immagine, circolata in rete, fotografa la contraddizione: l’intolleranza di chi si proclama tollerante, l’esclusione in nome dell’inclusione, la violenza verbale praticata in nome della pace. Da Ostia a Venezia passando per molte piazze, il copione è identico: chi non si allinea viene espulso non solo dal gruppo, ma dall’idea stessa di cittadinanza culturale. Il nuovo “antifascismo” si trasforma in dogana ideologica: passano solo i possessori del lessico approvato. Non sia mai arrivare ad una manifestazione con una bandiera italiana ma che dico italiana, Ucraina per far scoppiare il finimondo, scene di aggressioni da “squadristi”.
Questo clima non riguarda soltanto frange radicali: percola nel linguaggio quotidiano, nei talk show, nei post. Non si contesta più un’idea, si cancella chi la esprime, è la cultura dell’espulsione, figlia di un’insicurezza profonda: chi non si fida della forza dei propri argomenti preferisce zittire l’altro. E ciò che spaventa più dell’aggressività è l’indifferenza degli spettatori: nessuno interviene, nessuno rivendica ad alta voce che la libertà valga anche per chi non la pensa come noi. A quel punto non serve un regime per imporre il silenzio: il silenzio si costruisce da solo.
La sinistra contro sé stessa
Da anni la sinistra combatte una guerra intestina, confondendo pluralismo con frammentazione e dissenso con tradimento. Ogni voce autonoma viene guardata con sospetto, Fiano lo ha imparato sulla propria pelle: è bastato proporre un discorso non fazioso sulla pace perché scattasse l’ostilità. È accaduto, in tempi diversi, ad altri esponenti progressisti che hanno osato dire “forse stiamo sbagliando direzione”: il richiamo alla misura diventa “moderatismo”, l’invito alla complessità “ambiguità”.
La politica vera non vive di purezza, ma di equilibrio e confronto. Quando una parte smette di discutere con sé stessa, implode. Non è (solo) un problema di leadership: è un problema di identità, la sinistra non sa più a chi parla, e soprattutto come parla. Mentre si interroga su simboli e linguaggi, il Paese reale scorre accanto con i suoi bisogni concreti. La sconfitta prende forma lì: nella distanza crescente tra chi predica libertà e chi ne ha davvero bisogno.
Le parole di Prodi e la ferita aperta
Ieri, Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, architetto del centrosinistra moderno, ha detto senza giri di parole: “Il centrosinistra ha girato le spalle all’Italia.” Non è un’uscita estemporanea, ma la diagnosi di un malessere profondo: un’area politica incapace di parlare al Paese reale, chiusa in una retorica minoritaria e autoreferenziale. “Non si vince se non si torna ad ascoltare gli italiani”, ha aggiunto. Parole che dovrebbero scuotere chiunque; prevedibilmente, hanno generato fastidio. Prodi non è diventato “reazionario” in una notte: sta semplicemente descrivendo la realtà in un ambiente dove la realtà è un fastidio, dire la verità diventa atto rivoluzionario.
Il nuovo autoritarismo “morbido”
Da qui il punto più scomodo: non serve la camicia nera per agire in modo autoritario, esiste un autoritarismo “morbido”, fatto di controllo morale, censura culturale, paura del dissenso. Non si impone con la forza fisica, ma con la forza del giudizio sociale: basta un post, una clip, un’etichetta, e sei fuori. In questo senso Fiano ha ragione quando parla di “atto fascista”: non perché i suoi contestatori siano nostalgici del ventennio, ma perché replicano la logica del silenzio imposto. È l’esperienza quotidiana di molti: esci dal coro e vieni marchiato.
Tornare al pensiero, non allo slogan
La lezione è elementare e, proprio per questo, urgente: tornare al pensiero, al dubbio, alla fatica di ragionare prima di reagire, di ascoltare prima di giudicare. Non c’è democrazia senza confronto, né confronto se ogni voce diversa viene messa a tacere in nome della superiorità morale. La libertà non è comoda: è fatta di attriti, dissonanze, inciampi. La sinistra del dopoguerra lo sapeva: difendeva cultura e ricerca, non temeva l’eterodossia. Oggi, invece, si parla di libertà pretendendo uniformità, si invoca il dialogo selezionando gli interlocutori.
La rettrice Lippiello lo ha ricordato con semplicità: coltivare il pensiero critico “nel rispetto delle persone” è compito dell’università. Sembra l’ovvio, ed è già una sfida. Il pensiero critico è imprevedibile, talvolta scomodo; spezza la monotonia della certezza e costringe a ripensarsi. Proprio per questo serve ora: non come esercizio accademico, ma come condizione di sopravvivenza civile. Una democrazia non si misura dalla quantità di slogan che produce, ma dalla qualità dei pensieri che sa generare. E un pensiero, per essere libero, deve poter anche disturbare.
La sinistra smarrita
Il caso Fiano è lo specchio di una decadenza culturale: una sinistra che non distingue più tra giustizia e vendetta, tra libertà e imposizione, tra opinione e dogma, che si crede “migliore” e non accetta la complessità del mondo, finendo per somigliare ai suoi nemici storici nel gesto che più li definisce: chiudere bocche.
La storia avverte da sempre: quando una parte smette di ascoltare, si autodistrugge. Prima di continuare a brandire la parola “fascismo”, volga uno sguardo allo specchio, l’autoritarismo non arriva sempre da destra: a volte indossa magliette con slogan pacifisti e porta sulle spalle uno zaino universitario.





