La Festa dei lavoratori nacque per rivendicare la riduzione della giornata a otto ore; centotrentacinque anni più tardi la liturgia sopravvive, ma i salari reali italiani valgono quasi il 7 % in meno di quelli del 2019 e addirittura meno di quelli del 1990, un unicum nell’area Ocse.
Sullo sfondo, l’occupazione cresce: l’Istat certifica un tasso di disoccupazione al 6,3 % (gennaio 2025) e un record di 23,7 milioni di occupati, ma quasi un lavoratore su dieci rimane povero in termini assoluti. La forbice fra dati macro e buste paga gonfia la sensazione di un rito sempre più distante dalla realtà quotidiana.
Sindacati, contatori di tessere
CGIL, CISL e UIL sfilano a ranghi stretti ma conservano un peso anagrafico enorme: la sola CGIL dichiara 5,17 milioni di iscritti, numeri gonfiati da quasi due milioni di pensionati tesserati.
L’inflazione organizzativa è evidente: più tessere che scioperi efficaci e, soprattutto, pochi risultati negoziali. Il calo strutturale dei salari reali corre in parallelo con l’aumento dei servizi a pagamento (Caaf, patronati, fondi bilaterali) che finanziano le confederazioni. Il conflitto, un tempo capitale politico, diventa core business di consulenza.
Una partita giocata in due tempi
Dal 2008 a oggi l’Italia ha cambiato nove governi – Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e II, Draghi – tutti accomunati dal sostegno parlamentare di un centrosinistra in cui i sindacati hanno avuto accesso privilegiato. La riforma Fornero nacque con uno sciopero simbolico di tre ore; il Jobs Act passò dopo un’unica giornata di stop generale, quando il decreto era già in Gazzetta.
Nel 2021 Landini definì il governo Draghi “l’occasione per rimettere il lavoro al centro”; sul salario minimo, però, le confederazioni si smarcarono perché – dicono – “lo contrattiamo già noi”.
Il verdetto è paradossale: molti governi hanno normato il lavoro aggirando il sindacato, ma il sindacato ha reagito più con circolari che con conflitto.
La destra al governo, il bersaglio mobile
Con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi cambia il colore del nemico, non la forma della dialettica. La premier rivendica “un milione di posti di lavoro in due anni e mezzo”; Landini replica minacciando “una nuova stagione di mobilitazione” .
L’oscillazione fra trionfalismi governativi e smentite sindacali produce un clima di talk-show permanente in cui la verifica dei numeri sparisce. Mentre si duella sui decimali, i morti sul lavoro superano quota 1.070 nel 2024, in aumento sul 2023.
Eppure la sicurezza resta un capitolo residuale nei contratti nazionali, complice l’eterna trattativa su aumenti che non coprono l’inflazione.
Musica, slogan e note stonate
Sul palco di Piazza San Giovanni sfilano quaranta artisti: ad aprire è Leo Gassmann con Bella Ciao, poi una maratona in cui Achille Lauro, Elodie, Ghali e The Kolors superano le dodici ore di diretta.
Di lavoro si parla poco; fa invece il giro del mondo l’urlo “Palestina libera” dei Patagarri, che scatena l’ira della comunità ebraica romana.
L’impressione è che il Concertone sia diventato un megafono di agenda-setting alternativa: Gaza, antifascismo, diritti LGBTQIA+. Temi legittimi, ma il contesto scivola dalla festa dei lavoratori a un generico happening progressista. Il pubblico balla, i sindacati applaudono dal backstage, i salari restano fuori dal mix.
L’etichetta “fascista”: comfort zone polemica
La polemica identitaria trova un banco di prova sette giorni prima, quando diversi Comuni – di destra e di centrosinistra – vietano “Bella Ciao” nei cortei del 25 aprile per “sobrietà” da lutto nazionale; a Romano di Lombardia scoppia il caso e l’inno partigiano viene comunque cantato.
La parola “fascismo” si trasforma così in elastico semantico: la sinistra la usa per definire il governo di destra, la destra la utilizza per bollare la “cancel culture” progressista. È un errore simmetrico. Fascismo non è un orientamento di mercato, ma la torsione autoritaria che nega pluralismo: vale per il Ventennio, per il real-socialismo sovietico, per il capitalismo sorvegliato cinese.
Confondere destra con fascismo e sinistra con libertà è un alibi comodo che impedisce di giudicare le politiche sul merito – stipendi, contratti, sicurezza – e non su etichette morali.
Quel che resta della lotta
Se il Primo Maggio vuole tornare a parlare di lavoro deve smettere di ossessionarsi per la foto-op: meno palchi, più vertenze concrete; meno primarie di leadership televisiva, più contrattazione di filiera; meno “Bella Ciao” vietata o esibita come feticcio, più inchieste sugli appalti che comprimono salari e sicurezza.
Significa anche pretendere trasparenza dai sindacati – bilanci online, rendicontazione pubblica degli scioperi riusciti e falliti – e rigore dai governi, qualunque sia il colore, nell’ascolto preventivo delle parti sociali.
Alla fine, “c’era una volta il Primo Maggio” sarà un ricordo soltanto se tornerà la sostanza. Altrimenti rimarrà una passerella di buone intenzioni e cattiva memoria, dove la musica copre il rumore delle macchine ferme, e la retorica dei diritti sostituisce l’esercizio dei doveri.
La storia insegna che le feste senza conflitto diventano cerimonie; i lavoratori – se vorranno – potranno trasformarle di nuovo in lotta.